Neppure un passo verso il cielo
Al di là dello spazio e del tempo infinito, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene quando è la sua ora. Noi abbiamo facoltà di acconsentire ad accoglierlo o di rifiutare. Se restiamo sordi, egli torna e ritorna ancora, come un mendicante; ma un giorno come un mendicante non torna più.
Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere.
(Simone Weil, Attesa di Dio, pp. 98-99)
Nel silenzio frusciante dello Zendo, le parole del Maestro ci dicono che una volta che si sono aperti gli occhi, anche soltanto per un istante, non li si possono più richiudere.
Penso alle porte, a quelle del Tempio, che materialmente scardiniamo in occasione di una cerimonia, o per far passare un oggetto ingombrante attraverso le stanze; e a porte più private, i cui battenti ciascuno di noi accoglie da qualche parte. Spesso il perno è semplicemente il respiro, il battito di ciglia, l’istante che ci crea.
A volte ho creduto di aver tirato un’usciata, ne ho sentito lo schianto, l’eco silenziosa dei giorni dopo. Altre volte è semplicemente il vento che decide. Poi una sera qualunque, mi ritrovo a pensare -ma pensare non è qui il verbo giusto: non si pensa un prurito, o un arto mancante- a quello che credevo di aver lasciato di là dalla soglia, come a un oggetto perduto della mia casa. Quello che ci si ritrova sul palmo quando si smette di cercarlo, una maniglia che ci è familiare. Viene quando è la sua ora. E prima o poi lo si scopre sabbia, tra le dita e sotto i piedi. Forse attutirà il ticchettio dei passi di domani, svelerà orme come miraggi, per un momento solo, la scia di una barca sull’acqua, un serpente che il vento ci disegna davanti, spianando le spighe in un campo.
Il primo sì non lo pronunciamo nemmeno, lo accordiamo nascendo ogni giorno, e lo dimentichiamo distratti, tra le pieghe di un sopracciglio corrugato, di un lenzuolo gualcito, di un sorriso. Ecco allora che ce ne sale alle labbra un altro, poi ancora un altro. Da qui in poi non c’è più niente di scontato: il mondo era là e noi l’abbiamo guardato; senza allungare la mano per prenderlo, per averne un pezzetto, l’abbiamo guardato ed è diventato nostro, così come la lucciola è del grano.
Credo che partire da questo punto –che poi è nessun punto, è soltanto frazione infinitesima di una delle infinite rette, fermo immagine di qualcosa che non può essere fermato- significhi portare tra le braccia una brocca, vuota di solito, per farci camminare leggeri e per ricordarci che siamo viandanti assetati e che abbiamo bisogno di ricevere; piena a volte, quando incontriamo qualcuno che si accorge di avere sete.
