mercoledì 3 giugno 2015

aprile

 



Ed eccovi me, un giorno d’aprile. Il tempo è bello anche se coperto, e io sono in un angolo del giardino: quello con la ghiaia e la statua del Buddha. Ho un compito in questo momento che mi riempie: fare bianchi i sassi per terra, togliere i rametti e le foglie cadute, i pezzetti di mota e di terriccio. Mi lascio prendere; capisco che senza neanche accorgermene, pezzi di me fanno squadra: la mano destra prima esplora con tutti i polpastrelli, poi si fa leggera e  rapida, scava e carpisce con piccoli tocchi, la sinistra è ciotola e nido, ha una capienza soltanto limitata, che ogni tanto mi fa alzare a buttar via quello che ho raccolto. Più di tutto trovo petali trasparenti, minuscole ali o elitre, rese palpabili da una pioggia recente; non ho bisogno di alzare la testa, mi basta il naso per sapere: è il glicine. Penso a Kyogen che brucia i suoi libri dei Sutra e contemporaneamente a Alejandra Pizarnik che scrive “esta lila se deshoja/ desde si misma cae y oculta su antigua  sombra” e poi soggiunge che di cose così potrebbe morire. Penso anche che questo non è l’unico modo, e probabilmente nemmeno il più funzionale, di mondare quest’angolo di terra. Qual è il punto in cui una strada si biforca, quello in cui nasce o non nasce un gesto, una faccia? Rannicchiata, raccolgo: oggi la strada è tutta qui, tra il glicine ancora appeso e quello che rifiorirà.  

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