Ed eccovi me, un giorno
d’aprile. Il tempo è bello anche se coperto, e io sono in un angolo del
giardino: quello con la ghiaia e la statua del Buddha. Ho un compito in questo
momento che mi riempie: fare bianchi i sassi per terra, togliere i rametti e le
foglie cadute, i pezzetti di mota e di terriccio. Mi lascio prendere; capisco
che senza neanche accorgermene, pezzi di me fanno squadra: la mano destra prima
esplora con tutti i polpastrelli, poi si fa leggera e rapida, scava e carpisce con piccoli tocchi, la sinistra è
ciotola e nido, ha una capienza soltanto limitata, che ogni tanto mi fa alzare
a buttar via quello che ho raccolto. Più di tutto trovo petali trasparenti,
minuscole ali o elitre, rese palpabili da una pioggia recente; non ho bisogno
di alzare la testa, mi basta il naso per sapere: è il glicine. Penso a Kyogen
che brucia i suoi libri dei Sutra e contemporaneamente a Alejandra Pizarnik che
scrive “esta lila se deshoja/ desde si misma cae y oculta su antigua sombra” e poi soggiunge che di cose
così potrebbe morire. Penso anche che questo non è l’unico modo, e
probabilmente nemmeno il più funzionale, di mondare quest’angolo di terra. Qual
è il punto in cui una strada si biforca, quello in cui nasce o non nasce un
gesto, una faccia? Rannicchiata, raccolgo: oggi la strada è tutta qui, tra il
glicine ancora appeso e quello che rifiorirà.
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