venerdì 17 luglio 2015

subterranean homesick



Neppure un passo verso il cielo



Al di là dello spazio e del tempo infinito, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene quando è la sua ora. Noi abbiamo facoltà di acconsentire ad accoglierlo o di rifiutare. Se restiamo sordi, egli torna e ritorna ancora, come un mendicante; ma un giorno come un mendicante non torna più. 
Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere. 
(Simone Weil, Attesa di Dio, pp. 98-99)


Nel silenzio frusciante dello Zendo, le parole del Maestro ci dicono che una volta che si sono aperti gli occhi, anche soltanto per un istante, non li si possono più richiudere. 
Penso alle porte, a quelle del Tempio, che materialmente scardiniamo in occasione di una cerimonia, o per far passare un oggetto ingombrante attraverso le stanze; e a porte più private, i cui battenti ciascuno di noi accoglie da qualche parte. Spesso il perno è semplicemente il respiro, il battito di ciglia, l’istante che ci crea. 
A volte ho creduto di aver tirato un’usciata, ne ho sentito lo schianto, l’eco silenziosa dei giorni dopo. Altre volte è semplicemente il vento che decide. Poi una sera qualunque, mi ritrovo a pensare -ma pensare non è qui il verbo giusto: non si pensa un prurito, o un arto mancante- a quello che credevo di aver lasciato di là dalla soglia, come a un oggetto perduto della mia casa. Quello che ci si ritrova sul palmo quando si smette di cercarlo, una maniglia che ci è familiare. Viene quando è la sua ora. E prima o poi lo si scopre sabbia, tra le dita e sotto i piedi. Forse attutirà il ticchettio dei passi di domani, svelerà orme come miraggi, per un momento solo, la scia di una barca sull’acqua, un serpente che il vento ci disegna davanti, spianando le spighe in un campo. 
Il primo sì non lo pronunciamo nemmeno, lo accordiamo nascendo ogni giorno, e lo dimentichiamo distratti, tra le pieghe di un sopracciglio corrugato, di un lenzuolo gualcito, di un sorriso. Ecco allora che ce ne sale alle labbra un altro, poi ancora un altro. Da qui in poi non c’è più niente di scontato: il mondo era là e noi l’abbiamo guardato; senza allungare la mano per prenderlo, per averne un pezzetto, l’abbiamo guardato ed è diventato nostro, così come la lucciola è del grano. 
Credo che partire da questo punto –che poi è nessun punto, è soltanto frazione infinitesima di una delle infinite rette, fermo immagine di qualcosa che non può essere fermato- significhi portare tra le braccia una brocca, vuota di solito, per farci camminare leggeri e per ricordarci che siamo viandanti assetati e che abbiamo bisogno di ricevere; piena a volte, quando incontriamo qualcuno che si accorge di avere sete.



mercoledì 3 giugno 2015

quando



                                                           un vaso vuoto è già un fiore

aprile

 



Ed eccovi me, un giorno d’aprile. Il tempo è bello anche se coperto, e io sono in un angolo del giardino: quello con la ghiaia e la statua del Buddha. Ho un compito in questo momento che mi riempie: fare bianchi i sassi per terra, togliere i rametti e le foglie cadute, i pezzetti di mota e di terriccio. Mi lascio prendere; capisco che senza neanche accorgermene, pezzi di me fanno squadra: la mano destra prima esplora con tutti i polpastrelli, poi si fa leggera e  rapida, scava e carpisce con piccoli tocchi, la sinistra è ciotola e nido, ha una capienza soltanto limitata, che ogni tanto mi fa alzare a buttar via quello che ho raccolto. Più di tutto trovo petali trasparenti, minuscole ali o elitre, rese palpabili da una pioggia recente; non ho bisogno di alzare la testa, mi basta il naso per sapere: è il glicine. Penso a Kyogen che brucia i suoi libri dei Sutra e contemporaneamente a Alejandra Pizarnik che scrive “esta lila se deshoja/ desde si misma cae y oculta su antigua  sombra” e poi soggiunge che di cose così potrebbe morire. Penso anche che questo non è l’unico modo, e probabilmente nemmeno il più funzionale, di mondare quest’angolo di terra. Qual è il punto in cui una strada si biforca, quello in cui nasce o non nasce un gesto, una faccia? Rannicchiata, raccolgo: oggi la strada è tutta qui, tra il glicine ancora appeso e quello che rifiorirà.  

lunedì 16 marzo 2015

le favolate-9





Il Bosco Addormentato

C’era una volta Rosaspina. Se questa storia l’avesse scritta lei non si sarebbe chiamata così, ma, chissà perché, le storie non se le scrivono forse mai i personaggi. Possiamo anche dire che Rosaspina non avrebbe scritto forse mai.
Ma seguimi, lettore! Chi ti ha detto che non esiste sull’orologio la tredicesima ora e nella credenza il tredicesimo piatto?
Quella sera infatti furono invitati tutti. Fu una bella festa, perché non c’era niente da festeggiare e si festeggiava tutto, perché sui termosifoni accesi c’erano le bucce dei mandarini, perché nel gioco delle sedie quando si spegneva la musica compariva una nuvola a forma di piroga, ma la poteva vedere solo uno alla volta, perché le uova di legno per rammendare i calzini erano state messe al bando, non si sa bene per quale motivo.
La luna splendeva bassa nel cielo, quando Rosaspina uscì ad accompagnare l’ultimo ospite per un tratto. Si salutarono sul limitare del bosco, e Rosaspina salì in groppa al cavallo che fino ad allora aveva portato a mano, con l’idea di fare una passeggiata tra gli alberi. qualcuno doveva averla avvertita che era meglio dimenticarsi una scarpetta al ballo che un guanto nella tasca, ma lei non ci aveva badato e così al primo tronco si sbucciò una nocca.
Fu allora che tutti gli alberi del bosco si addormentarono: piegarono i rami a mo’ di gomito sugli occhi e chinarono le chiome come per una libecciata improvvisa.
Passarono mille e mille anni. Rosaspina e il suo cavallo non si mossero dal bosco, ma per loro fu un battito di ciglia. Finché Rosaspina non trovò un’altalena appesa a un ramo e si mise a dondolare.
Gli alberi si trasformarono in lampioni accesi, metà che con lo stelo a terra guardavano verso il cielo e metà che tuffavano la testa nell’acqua del fiume. Rosaspina si guardò la mano con un piccolo segno sulla nocca e pensò che si guarisce anche per seconda intenzione. Si mise a fare le bolle di sapone e contò una distanza in ponti invece che in anni, che tanto il numero era lo stesso. Una bolla andò a scoppiare proprio sulla punta di un lampione che in quell’istante si spense. Rosaspina credette di aver combinato un guaio (e stava per rimontare in fretta sul cavallo) quando si accorse che si erano spenti tutti. C’è un’ora che si spengono i lampioni.

domenica 23 novembre 2014

plastica trasparente




In Piazza della Repubblica ci metto qualche secondo per riconoscere Gloria Gaynor al violino. Mi chiedo se siano ancora in commercio i fuseaux con i lacci sotto i piedi, domanda puramente platonica, come quelli che mi mettevo alle medie per andare in palestra al Poggetto. “Cecilia, non fare il budino!” la mia prima verticale.
Alla Rinascente sulle scale mobili è di rito far tintinnare i ciondoli di plastica trasparente con la mano, ma oggi me ne dimentico. Mi ricordo invece di una foto di un profilo di facebook, non mio, in cui non compaio, in piena ottemperanza alla logica. Solo, in quella foto c’ero anch’io. Mi stupisco di come abbiano fatto a scomparire anche i miei capelli sciolti che erano così vicini al braccio del ritratto. Quando comincio a inventare che forse è passato un pastello gentile, un photoshop visionario, sono all’ultimo piano e comincio a cercare la guarnizione per la caffettiera.