D’un colpo. In coda per segreterie, mi accorgo del suono di un gong, del piattista di un’orchestra che rompe le fila e con un gesto solo crea.
Mi butto sul quadro dell’elettricità coi suoi interruttori dietro il vetro, che in questo momento preferisco alla bacheca accanto. La causa del ragazzo prima di me va per le lunghe, ascolto la storia, nel riflesso fisarmonica di schiena porta socchiusa sedia girevole. Il gioco dell’oca delle metamorfosi a tappe, la carta probabilità/imprevisti, riparti dal via, la bugia infinita del se-allora. Il piattista non si è mosso ma i piatti continuano a suonare farfalle, senza pieghe numerate, in un quando che è ora e onda da lasciarsi portare. Ho la tentazione del “subito come prima” stringendo occhi pugni e denti, ma il piattista è impassibile e beffardo. Spazio poco, luoghi molti. Tra me e la soglia della segreteria ci saranno sì e no cinque passi, sentieri avvolti su se stessi, distese d’acqua con fenicotteri rosa che hanno un becco per nutrire e per parlare, interrogarsi e sfiorare. Quanto dura un tuffo in piscina, quanto il tuffo al cuore di un’attesa, quanto l’immobilità senza fermo immagine?
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