martedì 24 giugno 2014

solo una mela verde



Su un foglietto ritrovo la mia grafia, “vorrei che le cose succedessero come gli alberi”. Cosa volevo dire? Non lo so. 
Oggi nella borsa di Gisella c’era una mela, l’ho vista fare capolino dalla cerniera, così, senza cartoccio, solo una mela verde. Francesco va a fare la stagione a Lignano Sabbiadoro e si porta dietro una graziella e tre lucchetti, Paola e Marco parlano di racchette da tennis, su quali scivola meglio la palla. Maria mi sorride, mi ha chiesto dove ho comprato il mio vestito di sempre e ora ne ha uno uguale, le piace questo cencio. Bochra torna in Marocco dopo quattro anni che non vede i suoi, a casa; non sa neanche che treno deve prendere per arrivare alla sua stazione, sono cambiate le ferrovie, le “infrastrutture” dice, poi mi parla della primavera e della stagione delle piogge, a ottobre. 
Come gli alberi. Con la schiena appoggiata a un muro, i discorsi intorno. I rami partono di sicuro dallo sterno e fanno il solletico. Oppure rannicchiata, come se esistessero solo le dita dei piedi.
 “Niente di tutto ciò -(…)- diciamo, piuttosto, un libro che si chiude” mi ha detto Ray Bradbury da “l’ultima notte del mondo”.  

venerdì 20 giugno 2014

coraggio e curegge


accarezzevole...


Schiuma in vasca da bagno, leggo Das Kapital mentre sono indecisa se partecipare attivamente a una campagna contro l’onicofagia, contro l’onfaloscopia o allevare marmotte. O forse ricominciare a bere il tè verde al gelsomino.
La vicina del piano di sopra, che mi ha visto bambina, ogni volta che mi incontra per le scale mi chiede se ho fatto la permanente. Io le rispondo di sì, tutte le settimane, trovo i capelli ricci molto comodi e coreografici, nonché un’ottima alternativa ai clisteri di yogurt -greco, savasandìr-. Non penso che crederebbe che mia zia mio padre e io fino a dieci anni abbiamo le teghe e poi diventiamo il negus. 
E che dire di Giona, avrà mai invocato Giano per uscire dalla balena? E la tipa mignatta: è proprio vero che fa coppia col tipo mignotto? Vi sto annoiando? Pace, Panzeri, Indovina-chi. Per iscritto mi esce proprio male anche l’auto-ironia. Oddìo, non avrò mica toccato un argomento totem? E soprattutto, mica per averlo toccato l’avrò fatto ammosciare, il to(o)tem?  
Già, quasi mi dimentico: secondo me nelle capanne di Sukkot si mangia volentieri lo zuccotto. 

mercoledì 18 giugno 2014

rubata




Granita con panna, con voluttà da ritardataria: voglio affondare in Tardi e in panna, e in panne. Bicicletta rubata, di nuovo, e sono in ritardo a Tedesco. Ti ricordi la signora con il barboncino bianco che incontravamo tutte le mattine per andare a scuola? “anche stamani in ritardo, ma non vi suona mai la sveglia?”. Quella volta che c’era la gita sul Falterona e ce ne dimenticammo. E’ buona la panna. Mi comprasti un libro che parlava di Venezia e di un gatto, e mi portasti con te al lavoro. Invece ieri eravamo in anticipo, i primi di tutti i parenti, e la barzelletta Yiddisch che non riuscivi a finire di raccontarmi. 
Stavolta aggirarmi per la rastrelliera e non trovare più la bici che ci avevo lasciato la sera prima non è stato neanche spaesamento. Mi è sembrato un fatto naturale: a pensarci bene, in quest’anno e mezzo da quando l’avevo comprata non l’avevo mai ritrovata. Mando un messaggio per avvertire, e vado a piedi, così finisco per essere in anticipo sul ritardo: panna, ribadisco. 
Airone invece, la mia bici storica del liceo, l’ultima volta che l’ho vista stava appollaiata su un marciapiede sulla riva dell’Arno, su un pedale, al parco dell’Anconella, una mattina molto presto il primo giorno di marzo. Con nebbia e sole che giocavano a incresparsi, e me che ho preso appena il tempo di un caffè, senza chiederlo. Una mattina che mi pareva che il mondo crollasse e avevo una ragione solo piccola, solo una piccola ragione e neanche un accendino. 
La bici nuova è vecchia, ed è gialla “lemon e soda”, manubrio basso quasi da corsa, un’occasione. Mi piega a un’andatura ancora più ingobbita della mia solita, e per questo l’amo già. 
Airone, che G. chiamava Diotima, ma a me non è mai riuscito. Che quando me la legarono per sbaglio con un lucchetto non mio, mi misi a pensare attentamente a cosa potevo fare: ricostruii che l’avevo slegata e lasciata paradossalmente senza catena, e scesi di nuovo a legarla. Pensavo che se l’avessi fatto sarebbe stata libera entro la sera, e così è stato. Forse lo sarebbe stata comunque, ma chi lo sa. 
Si perdono anche le biciclette che non si sono mai avute.

venerdì 13 giugno 2014

Collina

 



Asfalto schiumante e tuoni negli ultimi due dopopranzo. Caldissimi. Questa di giugno è una pioggia bizzosa, che abbassa il cielo e il mal di testa, un’afa bisbetica come l’ultima lettera di un codice fiscale.
Al baretto di Lettere l’altro giorno c’era il sole invece. Tre ore di Tedesco a trentasei gradi e comicio a pensare nella lingua di Pingu. Mi rifugio al davanzale con caffè e budino di riso. Noto un alberuccio mimetizzato a forma d’ombrello, esco a fargli una foto e nel mentre passa un suv in mezzo ai tavolini. Nessuno sembra farci caso, dev’essere un evento abituale, sposto un paio di sedie per evitare che vengano travolte e mi chiedo da dov’è uscito: “associazione mutilati e invalidi di guerra” sul cancello che si richiude. Non so se è più fiacca l’arroganza del suv, l’ironia del cancello o io che racconto.
A Collina. A Collina vent’anni fa si usciva nell’orto e si staccava un pomodoro, gli si tirava un morso e ci si faceva colare addosso. Poi ci si lavavano i denti con il dito e  le foglie di salvia, ai piedi si portavano scarpe tagliate in punta con le forbici, che così “anche se fa un numero ci sta”,  e quando il caldo era troppo non c’era che da girare la maniglia e bagnarsi da capo a piedi con la sistola, lì, accanto alla vasca da bagno con le zampe riempita di terra e di fragole.
E’ solo quando, uscita dalla piscina, mi volto guardare la luna, che finalmente mi esce l’acqua dall’orecchio.  

venerdì 6 giugno 2014

Rossini




Dopo la piscina con lentezza, mi avvio a far riparare il pedale sinistro della bicicletta: sono mesi che rimando e ora schiocca ogni pochi metri. In quest’officina vicino Piazza San Jacopino non c’ero mai venuta, non conosco questo quartiere, le strade coi nomi di compositori, le incrocio di sfriso. La crema dopo doccia norvegese che mi sono portata in piscina sa irrimediabilmente di didò. Pelle di didò e capelli di cloro, arrivo all’indirizzo che mi hanno consigliato e mentre aspetto il pedale nuovo fuori dall’officina, mi accorgo che la palazzina dall’altro lato della strada ha qualcosa che mi cattura, l’occhio ci si appoggia un po’ troppo: ma sì, sono due porte identiche quasi attaccate. E al piano di sopra un balcone unico, senza divisorio, con due portefinestre anche loro identiche. 
Chi abita qui? Due coniugi che non vogliono tenere gli spazzolini da denti nello stesso bicchiere, una piuma che cade avvolgendosi su se stessa e l’equazione di gravità, due amanti timidi che non vogliono farsi vedere mano nella mano, le parole dette e le parole ascoltate. Ma c’è un momento, ora che sono qui lo so, che escono sul balcone tutti e due, ciascuno dalla sua portafinestra, appoggiano i gomiti alla ringhiera e si infossano un po’ nelle spalle.
Non saprò che cosa stanno guardando rapiti, perché a quel punto l’officina sarà già sparita, e anch’io, col mio pedale sinistro.