Asfalto schiumante e tuoni
negli ultimi due dopopranzo. Caldissimi. Questa di giugno è una pioggia
bizzosa, che abbassa il cielo e il mal di testa, un’afa bisbetica come l’ultima
lettera di un codice fiscale.
Al baretto di Lettere l’altro
giorno c’era il sole invece. Tre ore di Tedesco a trentasei gradi e comicio a
pensare nella lingua di Pingu. Mi rifugio al davanzale con caffè e budino di
riso. Noto un alberuccio mimetizzato a forma d’ombrello, esco a fargli una foto
e nel mentre passa un suv in mezzo ai tavolini. Nessuno sembra farci caso,
dev’essere un evento abituale, sposto un paio di sedie per evitare che vengano
travolte e mi chiedo da dov’è uscito: “associazione mutilati e invalidi di
guerra” sul cancello che si richiude. Non so se è più fiacca l’arroganza del
suv, l’ironia del cancello o io che racconto.
A Collina. A Collina
vent’anni fa si usciva nell’orto e si staccava un pomodoro, gli si tirava un
morso e ci si faceva colare addosso. Poi ci si lavavano i denti con il dito
e le foglie di salvia, ai piedi si
portavano scarpe tagliate in punta con le forbici, che così “anche se fa un
numero ci sta”, e quando il caldo
era troppo non c’era che da girare la maniglia e bagnarsi da capo a piedi con
la sistola, lì, accanto alla vasca da bagno con le zampe riempita di terra e di
fragole.
E’ solo quando, uscita dalla
piscina, mi volto guardare la luna, che finalmente mi esce l’acqua
dall’orecchio.
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