mercoledì 21 maggio 2014
sabato 17 maggio 2014
limbo
Piazzetta del Limbo in mattinata. Si devono scendere dei gradini per trovarsi di fronte alla chiesa che si chiama dei Santi Apostoli, passo davanti alla vetrina schiribillosa di un’enoteca e scendo. La pietra è un po’ umida e la chiesa è chiusa. Di fronte la porta girevole di un albergo lascia intravedere un lampadario già acceso e il banco della portineria deserto. Cielo afoso anche se indosso il giubbotto. Per un attimo qui fuori, vorrei io non battezzata imparare a pregare: solo per ricordarmi come si scrivono le cartoline.
Il gatto color di un’arancia mi guarda sornione. Stanotte ho ritrovato sui miei scaffali un eserciziario di chimica cirillico, viene da San Pietroburgo e da qualche anno fa. Quando me lo portarono ero contenta, ora me lo rigiro fra le mani, “chimia” in oro e ritratto di Mendeleev: quell’esame incimurrito me lo stavo portando a spasso da una facoltà a un’altra, da biotecnologie a medicina, “forza con questa chimica, si dà o non si dà”: perché dici chimica, che ne sai tu di chimica? Ora sfoglio e sorrido, sorrido con sbuffo -qual è il contrario di sospirare?-. Lo sapevi già, sorridevi già così allora. E allora lo capisco, questo è un regalo dal futuro.
venerdì 9 maggio 2014
some disordered
Crampo in piscina. Per un paio di vasche sono una marionetta a cui hanno tagliato un filo e mi porto a traino, respirando sempre dalla stessa parte, lasciando ricadere le braccia con uno schianto. Apprezzo il ranista che divide con me la corsia, apprezzo che non mi chieda niente quando arrivo al bordo, e che solo aspetti un po’ a ripartire.
“Passerì, ti sei ferita molto?” nella recita di prima elementare pescai dal cestino coi bigliettini il ruolo della protagonista. A vent’anni la studentessa di legge che colleziona trenta mi rinfaccia piccata, passandosi lo smalto “sai, io le recite le vedevo solo da dietro le quinte”. Oh yeah. Intanto mi informa che le hanno offerto tre proposte di tesi, mentre io affondo nell’atlante di anatomia e perdo pure l’orientamento. Ma una pallina rimbalzina anche quando sfonda un vetro resta una pallina rimbalzina.
Il cortile di Lettere non me lo ricordavo più, ghiaia e motorini. Lo schermo da aeroporto con gli orari delle lezioni non c’era l’ultima volta che ero stata qui. Mi lascio sorprendere dalla targa di marmo antica “alunne ostetriche” all’ingresso della segreteria del centro linguistico. Dentro è un tappeto a uncinetto tunisino, se anche lo girassi non cambierebbe trama, in coda davanti a me un orientale abbronzato con la silhouette divisa a metà dall’elastico delle mutande: “Franca, se viene da te un ragazzone, un cinese enorme, dagli il volantino del Portoghese, ho tentato di spiegargli ma”.
Davanti a un cappuccino l’altro giorno aspettavo che spiovesse e mi è venuto in mente che Sofia nel cappuccino mette lo zucchero e poi zucchera anche il bordo della tazza, torno torno. Ho voluto provare, ma lo zucchero è finito tutto nella schiuma. Non fa per me. Il Grande Claus continuerà a bere il suo cappuccino zuccherato e il Piccolo Claus se ne andrà in paese con la pelle del suo cavallo: torno da Andersen, mio grande piccolo torturatore.
Gli Ainu in Hokkaido tirano su le loro case issandole con le funi, partono a costruirle dal tetto di paglia, senza le fondamenta: è posto di terremoti e il tetto è un cerchio spiovente e può fare da coperchio all’occorrenza.
L’aria è fresca stasera e sa di erba falciata, anche col traffico, anche con la bistecca del ristorante di fronte, ma cosa c’è poi da dire?
domenica 4 maggio 2014
sabato 3 maggio 2014
polaroid
Guardando da un cannocchiale al contrario: io e mia madre su una panda bianca, primi anni ’90, viale dei colli. Mamma, vere fossette, veri zigomi e vera bellezza. Sceglie sempre di cantare Celentano nel tragitto tra casa e casa dei suoi. “Azzurro” se c’è ancora luce e “a mezzanotte sai” appena si accendono i lampioni. A me piace la parte con l’oleandro e il baobab. Babaob. “mamma, cos’è un loratorio?”. Ci chiedono cosa vogliamo diventare, quasi da subito. Mi chiedo invece, gioco facile, cosa vogliamo disertare. Puntino bianco in curva, dopo curva. De-serere, s-nodare. Lo chiedo alla mia volontà krakatuk, piccola noce recalcitrante. Ho la frangia e le trecce Sioux, come sempre, per carnevale mi sono pure travestita da indianina, è bastato aggiungere una penna dietro l’orecchio, e il vestito con le frange. Disertare tra una freccia e un’altra, di stazione in stazione.
“Cecì, quand’è che mi mandi affanculo?” il mio amico Edoardo, compagno di studio “mai Edo e lo sai.” Mai, perché nelle puntine da disegno che mi metti intorno alle scapole riconosco le penne di gabbiano, me le appunti recitando litanie silenziose come quelle che levano gli orzaioli, e non lo fai certo per disegnarmi una santerella o una martire al neon, ma per ricordarmi che ho le gambe, che se anche il pavimento, sotto i piedi, mi scivola via, ho le gambe.
Oggi è piovuto, e sì lo so che alla collana di perline che ho fatto ne ho infilate otto in più, ma ci sono stati 6 minuti e 50 di arcobaleno. E un arcobaleno anche in bianco e nero è un arcobaleno.
giovedì 1 maggio 2014
heimat
Stasera ho le piume arricciate e starnutisco. Forse che stare una nottata con i capelli bagnati faccia venire il raffreddore non è solo superstizione, ma stasera mi sorregge o sorveglia la fortuna travestita da inesperienza, con la risata di una Janis Joplin senza denti e con le mani da fabbro brunite di anelli e della fatica di cesellature inutili. E poi più semplicemente non mi va di accendere il phon, fon, fohn. Prima o poi mi iscrivo davvero al corso di tedesco del centro linguistico di ateneo, un’infarinatura di merkeliano potrebbe tornare utile. Merkeliano: Cecilia, vergognati. Utile poi. Im wundershonen monat mai: quando divoravo passerottescamente la saga degli Heimat di Edgar Reitz -un paio d’anni fa- il tedesco mi pareva la parlata più musicale possibile. E ora sono giorni che riguardo la sequenza del primo Heimat in cui Maria/Marita Breuer di ritorno dal cinema con la cognata Pauline, anni ’30, le disegna sul viso i riccioli della diva muta dell’epoca, e poi approfitta di un momento di solitudine per disegnarseli anche per sé, ma sul vetro dello specchio. Non mi stanco mai di rivedere questa manciata di secondi, anche nel rewind con la matita sullo specchio che sembra cancellare il disegno.
I baci, i baci naturalmente, le ciglia farfalle, punta del naso, i polpastrelli sulla peluria della settima vertebra cervicale, capitello ionico. Stringere in tasca le virgole e le candele.
Forse quando comincia il tempo alla rovescia non ci si può stupire a vedersi venire incontro i pensieri a testa all’ingiù. Non c’è che da perderlo come viene.
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