giovedì 1 maggio 2014

heimat





Stasera ho le piume arricciate e starnutisco. Forse che stare una nottata con i capelli bagnati faccia venire il raffreddore non è solo superstizione, ma stasera mi sorregge o sorveglia la fortuna travestita da inesperienza, con la risata di una Janis Joplin senza denti e con le mani da fabbro brunite di anelli e della fatica di cesellature inutili. E poi più semplicemente non mi va di accendere il phon, fon, fohn. Prima o poi mi iscrivo davvero al corso di tedesco del centro linguistico di ateneo, un’infarinatura di merkeliano potrebbe tornare utile. Merkeliano: Cecilia, vergognati. Utile poi. Im wundershonen monat mai: quando divoravo passerottescamente la saga degli Heimat di Edgar Reitz -un paio d’anni fa- il tedesco mi pareva la parlata più musicale possibile. E ora sono giorni che riguardo la sequenza del primo Heimat in cui Maria/Marita Breuer di ritorno dal cinema con la cognata Pauline, anni ’30,  le disegna sul viso i riccioli della diva muta dell’epoca, e poi approfitta di un momento di solitudine per disegnarseli anche per sé, ma sul vetro dello specchio. Non mi stanco mai di rivedere questa manciata di secondi, anche nel rewind con la matita sullo specchio che sembra cancellare il disegno.
I baci, i baci naturalmente, le ciglia farfalle, punta del naso, i polpastrelli sulla peluria della settima vertebra cervicale, capitello ionico. Stringere in tasca le virgole e le candele.
Forse quando comincia il tempo alla rovescia non ci si può stupire a vedersi venire incontro i pensieri a testa all’ingiù. Non c’è che da perderlo come viene. 

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