Muro bianco. Che cos’è il
muro? Che cosa se non un soffitto verticale? E che cos’è il soffitto se non
l’unica porzione di cielo che
sappiamo di poter toccare? Chiudo gli occhi, un solo battito. La prima
volta che mi sono seduta, bianco intollerabile: una pagina da non riempire. La
pagina che non sai, e no che non la volti. La mia grafia sbavata sul retro.
Scopri che esistono gli altri intorno, e solo quando non li puoi vedere; il
loro respiro, accordarsi. Centottanta gradi sono la differenza di questo momento.
La fotografia che ti rimaneva dietro le spalle e che non hai scattato.
Scattato. Inglese to shoot. Sarà banale, ma penso: invece di scattare, di
scoccare, staccare. Staccare un volto dalla tela, il proprio volto dalla tela
del giorno. Pellicola sottile tra te e il cielo: da bambini lo disegniamo con
una striscia di pennarello, in cima al foglio. A volte lo graffiamo se
l’inchiostro è poco, pur di disegnarlo. Ma tutto il bianco che rimane è quello
che ti trovi davanti ora, seduto. Si siede anche il muro, ti siede di fronte. È
bravo a non dare risposte, a non incalzarti con appigli e certezze. Ti lascia,
semplicemente. Ti lascia, ma è sempre lì davanti. Lasciar cadere: sei già per
terra. La forza di gravità non spinge, la colonna sono le vertebre una sull’altra.
E la vertebra che di solito viene indicata come la prima, appena sotto il
cranio, e che chiamano Atlante, a me ora pare l’ultima. Atlante come il titano
condannato da Zeus a portare sulle sue spalle il peso dell’intera volta
celeste, ironia degli anatomici. Mi pare l’ultima, dicevo, perché è l’unica che
in questo momento deve credere: credere al filo del burattinaio che la tenga
su. Hanno un’anima le marionette? Probabile di sì. Sanno le marionette in ogni
loro nodo e giuntura, sanno che basta un soffio, e in questo sono sorelle delle
candele. Noi no. Pensiamo di poterci curvare e decidere, inventiamo ombrelli
per la pioggia e per il vento. Non ora, non qui. C’è il muro ora, e solo un
filo da non disegnare.