domenica 23 novembre 2014

plastica trasparente




In Piazza della Repubblica ci metto qualche secondo per riconoscere Gloria Gaynor al violino. Mi chiedo se siano ancora in commercio i fuseaux con i lacci sotto i piedi, domanda puramente platonica, come quelli che mi mettevo alle medie per andare in palestra al Poggetto. “Cecilia, non fare il budino!” la mia prima verticale.
Alla Rinascente sulle scale mobili è di rito far tintinnare i ciondoli di plastica trasparente con la mano, ma oggi me ne dimentico. Mi ricordo invece di una foto di un profilo di facebook, non mio, in cui non compaio, in piena ottemperanza alla logica. Solo, in quella foto c’ero anch’io. Mi stupisco di come abbiano fatto a scomparire anche i miei capelli sciolti che erano così vicini al braccio del ritratto. Quando comincio a inventare che forse è passato un pastello gentile, un photoshop visionario, sono all’ultimo piano e comincio a cercare la guarnizione per la caffettiera. 

sitting

 

Muro bianco. Che cos’è il muro? Che cosa se non un soffitto verticale? E che cos’è il soffitto se non l’unica porzione di cielo che  sappiamo di poter toccare? Chiudo gli occhi, un solo battito. La prima volta che mi sono seduta, bianco intollerabile: una pagina da non riempire. La pagina che non sai, e no che non la volti. La mia grafia sbavata sul retro. Scopri che esistono gli altri intorno, e solo quando non li puoi vedere; il loro respiro, accordarsi. Centottanta gradi sono la differenza di questo momento. La fotografia che ti rimaneva dietro le spalle e che non hai scattato. Scattato. Inglese to shoot. Sarà banale, ma penso: invece di scattare, di scoccare, staccare. Staccare un volto dalla tela, il proprio volto dalla tela del giorno. Pellicola sottile tra te e il cielo: da bambini lo disegniamo con una striscia di pennarello, in cima al foglio. A volte lo graffiamo se l’inchiostro è poco, pur di disegnarlo. Ma tutto il bianco che rimane è quello che ti trovi davanti ora, seduto. Si siede anche il muro, ti siede di fronte. È bravo a non dare risposte, a non incalzarti con appigli e certezze. Ti lascia, semplicemente. Ti lascia, ma è sempre lì davanti. Lasciar cadere: sei già per terra. La forza di gravità non spinge, la colonna sono le vertebre una sull’altra. E la vertebra che di solito viene indicata come la prima, appena sotto il cranio, e che chiamano Atlante, a me ora pare l’ultima. Atlante come il titano condannato da Zeus a portare sulle sue spalle il peso dell’intera volta celeste, ironia degli anatomici. Mi pare l’ultima, dicevo, perché è l’unica che in questo momento deve credere: credere al filo del burattinaio che la tenga su. Hanno un’anima le marionette? Probabile di sì. Sanno le marionette in ogni loro nodo e giuntura, sanno che basta un soffio, e in questo sono sorelle delle candele. Noi no. Pensiamo di poterci curvare e decidere, inventiamo ombrelli per la pioggia e per il vento. Non ora, non qui. C’è il muro ora, e solo un filo da non disegnare.  


mercoledì 19 novembre 2014

oggi


 


Oggi volevo che il cappuccino fosse un bacio e che la spalla accanto alla mia fosse una montagna. Invece sono come le case nei miei sogni: fatte di finestre, scale e vertigini. “Ce l’hai l’ombrello?” “no”. Un no che schiocca come un sì. Nella mia borsavaligia onnipresente c’è qualcosa di rosso e arrotolato, ma forse è un aquilone.

martedì 11 novembre 2014

l'anello

 



Resto tutto il giorno appesa alla parola soprassalto, come sognare di volare: staccata appena da terra, ma senza tornare giù.

Ho ritrovato un anello che comprò mia madre a Santa Fiora. Lo porto da un po’ di giorni e non so se mi va largo o stretto. Ripenso a un tema in classe di quando avevo diciassette anni –fui la sola a scegliere il racconto di Hamsun- e alla professoressa di italiano che cercava di dirmi che  misura non è sempre e solo capienza, che a volte può anche essere questione di coincidere.
“Per me una retromarcia” diceva la spavaldetta nel negozio d’intimo.
La sera appoggio l’anello sul comodino e noto il 925 dell’argento: scopro di averlo indossato a rovescio.