Ieri il mondo era i tappeti da aspirare, i vestiti e le scatole da buttare, il pavimento da lavare e tante e troppe cose e non so quali. Quando oggi mi sono svegliata mi ronzavano tutte in testa e mi sono accorta che stavo mentalmente passandole in rassegna come per preparare la valigia, ma quale valigia: stamani l’unica valigia che mi portavo dietro somigliava alla valigetta di Herzog, e dovevo andare infatti proprio alla posta, ma per un avviso di giacenza, niente lettere. Cara professoressa B., lei non si ricorderà di me-e perché dovrebbe, mi ha visto solo una volta- ma si ricorderà delle mie scarpe che fissava con tanta insistenza: velluto scuro un po’ consumato e fiocco incerto di gros grain. Cos’è, le ha trovate patetiche? Io le adoravo, anche se poi le ho buttate via -ieri per l’appunto-. Eppure le guardi bene, sono quasi austere, e poi anche se può non sembrare in realtà sono solo un paio di chantilly. Ma senta, professoressa B., cosa pensava lei quella mattina quando mi ha mandata a fare l’anamnesi, me sola, al paziente A. T. di anni 35 che nel reparto di degenza breve ci si trovava per un caso e che di anni ne dimostrava ottanta? Si è sentita spiritosa, il dottor house con la scusa del progesterone? No, guardi, professoressa B., io non ce l’ho con lei, anzi sono sicura che la sera lei sia una gran simpaticona col suo boa di piume e le ms club che passa in rassegna di sottecchi quante donne le sono cascate ai piedi intanto che fa scrocchiare all’unisono caviglia destra e spalla sinistra mentre tira un sospiro di compiacimento. Folate di turisti, ombrelli con trina e pois a cupola. Alla prima domanda: perché lei è qui? Mi si è conficcato qualcosa tra zigomo e tempia che non è andato più via, neppure quando cercando di essere il meno possibile una cavalletta ai piedi di quel letto, ho bene o male non dico conquistato la fiducia -che non era possibile e non me lo sarei proposto-, ma ridotto al minimo il fastidio sacrosanto dell’uomo che mi stava davanti “al sert, mi hanno mandato: lo sai te cos’è? Sì?” piccola breccia che si aprì. O chissà: chissà come si aprono queste brecce. Come faceva lei professoressa B., a vedere le mie scarpe quella mattina, come faceva a crederci –nelle mie scarpe intendo-? La fame degli affamati e la sazietà dei sazi, dicono che siano gemelli, indissolubilmente fusi. Sono arrivata alla posta: “per inesitate quartiere 3 gavinana-galluzzo rivolgersi a destra.” Leggo due volte “per inesitate” che vuol dire? A me quell’inesitate così maiuscolo pare un imperativo: abbandonate ogni dubbio e varcate la soglia. Piuttosto solenne, ma mi piace. E varco inesitando. “Che cos’abbiamo qui, avviso di giacenza, oh vediamo: è un atto giudiziario. Non faccia quella faccia, sarà una multa.” “no, guardi, io non…” “ah, ma non si può mai sapere, di multe ne arrivano sempre per qualunque motivo: a me ne è arrivata una dopo dieci anni perché a Venezia ero salita su un traghetto senza biglietto. Da tre euro sono diventati ottanta.” “beh, certo per Venezia…”. Santa Lucia, acqua e binari. E palafitte. “dove devo firmare?” “qui” bella mano botticelliana. Scarto. “Gentile contribuente, questo avviso le viene inviato a seguito di liquidazione di dichiarazione di successione…” one. Il millesimo dell’appartamento della zia di mio padre. Cara zia L., no "caro" Herzog, stavolta devo tirare fuori il cellulare e scrivere almeno un messaggio.
martedì 29 aprile 2014
mercoledì 23 aprile 2014
d'aria
Vorrei raccontarvi delle cose piccole e senza importanza. Per esempio che oggi in sala d’attesa -di quello che volete, una delle tante, inutili e continue: mettiamo del dentista, anche se non sento di essermi tolta nessun dente- Bosch aveva dipinto non solo le opere del catalogo che sfogliavo, ma anche la sala d’attesa e gli astanti, compresa me probabilmente, ma questo non ho avuto modo di appurarlo. Per esempio che mangiare i lamponi nel latte col cucchiaio non basta per credere di essere in Svezia neanche chiudendo gli occhi, ma lamponi e latte sono buoni lo stesso. “Maestra, di cos’è fatto il cielo?” “d’aria” “ma l’aria è trasparente e il cielo azzurro” “è perché l’aria si stratifica e altre cose più complicate” me lo immaginavo, non lo sa neanche lei. Per chi mi hanno preso: “si stratifica”.
“Riccardo buonasera, avrei bisogno di un lucchetto nuovo” “ah, va bene, che è successo?” “è andato fuori posto il meccanismo” Riccardo mi fa la faccia a punto interrogativo alzando le sopracciglia e stendendo la bocca “mi è caduta la bici alla rastrelliera qui all’angolo e se le è portate tutte dietro, ho perso la pazienza e ho sbattuto in terra anche il lucchetto” “questo l’hai capito come funziona? Fammi vedere…No! non l’avvitare, tira”.
Ma se salto a piè pari col braccio alzato e il dito su su poi ve lo dico di cosa è fatto il cielo.
venerdì 18 aprile 2014
tre soli
Il mio ticchettio sugli
scalini di oggi, ne conto quattordici e mi dico che preferirei perdere 3 a 11
che vincere 12 a 2, e poi mi chiedo se c’è differenza; e tre soli? Tre soli non
può essere: sarebbero al massimo tre con il ticchettio e gli altri undici di
giravolte arancione. Ma si vive proprio sempre in difesa di un territorio? Da
bambina con la mia vicina di casa ci mettevamo cavalcioni sul corrimano e
scendevamo così, scivolando all’indietro.
“Ce, me la sai fare una
treccia?” “no” “dài che invece sei la tipica che si saprebbe pettinare…” non
imparerò mai a resistere alle lusinghe di un condizionale anche poco
lusinghiero. Robert Redford spunta fuori chissà perché da com’eravamo e mi è
accanto, America fluoro e voce doppiata, “tu devi essere una tifosa scalmanata”
ci diamo anche un cozzino fronte a fronte e poi evaporiamo entrambi. “Va bene,
dammi una spazzola”.
In difesa di un territorio,
capirò mai cosa vuol dire? Poggiare la guancia su una diga che sta per
esplodere come sul petto di qualcuno a cui vuoi bene, e le dita, tutte le dita
del mondo nelle crepe dei muri: ma da quale parte, dentro fuori, vogliono
tappare le falle o vogliono semplicemente stare nelle intercapedini? Fosco
Maraini in Giappone si taglia il dito mignolo e le guardie del campo di
prigionia gli danno una capretta. Un dito di meno. E questo rumore cos’è, lo
sentite? il rumore di tutti gli argini del mondo che erano stati tirati su solo
per crollare.
lunedì 14 aprile 2014
favolate-8
Barbablù.
C’era una volta Barbablù. Sarà bene spiegare da subito che Barbablù era una donna, era la giovane figlia di Barbablù e per un caso bizzarro dal padre aveva ereditato il nome invece del cognome, oltre ai capelli così neri che al sole avevano i riflessi blu come quelli dei cartoni animati giapponesi. Ma non spaventatevi: diventano presto presto d’argento come il rovescio delle foglie d’olivo quando tira vento quei capelli. Quella mattina il Prestigiatore della Luce si era presentato a Barbablù con le belle mani aperte piene di regali: era generoso e geniale come sempre, senza neanche saperlo; Barbablù faceva dei sogni confusi e sussurrava balbettii incomprensibili e il Prestigiatore trasformava quei fili in un tessuto finissimo e bello di parole, in volti di pellicola proiettati sulla tela e in volti di carne con gli occhi di lucciola nel buio di cometa dei sogni. Quella mattina Barbablù si versava il caffè e pensava che così potrebbe cominciare una storia, che anzi quattro anni prima proprio davanti a una tazzina come quella le era capitato di incontrare la sua gemella, che si era presa per sbaglio il suo caffè, si era scusata e le aveva raccontato la sua storia, che da allora era diventata quella di Barbablù. Dunque Barbablù sorseggiava e pensava “a che punto della storia ti sei fermata Barbablù?” a quel caffè che ti sei sfilata di sotto da sola? a vederti si sente l’odore di spigo e di pane delle madie di campagna, cogliona. Cidrolin e il Duca d’Auge sono usciti di scena tenendosi a braccetto e tu sei qui che ti bevi il tuo caffè. Punto. Ora, Barbablù non era gelosa come suo padre, anzi in questo era tutta le sue otto madri notoriamente curiose come gazze, ma un po’ scalognate. C’era solo una cosa però che Barbablù non avrebbe voluto che si scoprisse mai di lei: la sua scatola di pastelli. Pastelli a cera, non troppo pregiati. Non la teneva però chiusa da qualche parte, né badava a nasconderla: l’importante era che chi l’apriva non notasse che mancava un colore. Mancava il bianco, il colore della mancanza.
venerdì 11 aprile 2014
rima
Ho camminato poco, dormito poco, studiato poco, all’esame manca credo poco. Credo, perché non ho guardato. Se anche avessi guardato non avrei visto. Per andare a lezione ho fatto la stessa strada di sempre; non so perché ma la strada non mi spaventa: mi sembra che a differenza di tutto il resto -del cumulo di primavere ammassato nell’armadio, degli inverni che vanno troppo stretti, troppo in fretta e sempre con troppa poca neve- la strada sia sempre diversa, sempre pronta ad aprirsi. In rima. Dopo dieci minuti di bicicletta, verso Porta al Prato o canto o inizio a pensare in rima, è un vizio. Rima labiale, rima baciata: strano destino, piccola parola, di spalancare abissi e allo stesso tempo creare un mondo di battiti che non sa. Oggi poi c’era il sole, un sole senza nuvole, troppo reale per essere vero, che schiacciava a terra le ombre sferzanti degli alberi sui viali e andava a stanare le panchine vuote per farle più verdi. Guanti a mezze dita, vi tengo nel cassetto in mezzo al mare, in questo istante, che è una vita è un momento, una passante.
Più tardi il pratone di Boboli, quasi vuoto sul filo di mezzogiorno. Mi sono solo sdraiata: è l’unico modo di staccare l’ombra da terra.
venerdì 4 aprile 2014
mangime
“Vuoi un po’ di mangime per i polli?” è Matilde, la mia compagna di banco, che parla: non avevo una compagna di banco da un pezzo, anche a scuola cambiavo posto troppo spesso, e mi fa un certo effetto. Erano tre anni che non la vedevo, da quando abbiamo fatto un semestre di tirocinio insieme a Santa Maria Nuova, e l’altra mattina ci siamo riconosciute e salutate come se ci fossimo lasciate la sera prima. Ci sediamo accanto, ecco tutto. “Vuoi un po’ di mangime per i polli?” mi porge una busta di cereali e bacche a cui ha rimboccato i margini, “sì, volentieri, ne assaggio un po’” “scusa sai, ma non volevo fare la cicciona che si porta la cioccolata!” ride di cuore Matilde e mi è cara: è bella, si disegna il volto come quello di una gatta, ma non ne avrebbe nessun bisogno per sembrarlo. Tiro fuori i miei fogli bianchi per gli appunti e mi accorgo che me ne restano due soli, per questa volta scriverò stretto.
Anche oggi devo aver scambiato la mia sinusite per malinconia, il catarro fermo tra zigomi e naso per atra bile, e per lo sfarzo sto facendo di tutto per trasformare nelle prossime due ore di lezione l’herpes che ho sul labbro in una mongolfiera. A casa sono stata un minuto buono davanti alle mie chiavi appese senza vederle, perché mi ostinavo a cercare con gli occhi un portachiavi che ho perso da almeno sei anni; quando l’ho realizzato mi è venuta incontro l’idea di Philip Dick che fa iniziare in modo simile time out of joint: non che sperassi negli alieni, ma nel periodo in cui leggevo Philip Dick sferruzzavo come una forsennata e facevo assomigliare tutti i miei prossimi, fin troppo compiacenti, a Massimo Giannini in Mimì metallurgico ferito nell’onore, e con questo posso andare.
Quando saluto Matilde alla fine della lezione però devo avere un’aria che non vorrei, perché le vedo le fossette del suo bel sorriso spianarsi, o forse è solo una mia impressione, oggi proprio non sono sicura neanche se ci sono io: del resto cosa ci si può aspettare da una nata un giorno che non c’è nemmeno tutti gli anni sul calendario?
Ieri sono salita a Bellosguardo, dietro casa, e tentavo di fotografare una nuvola quando si sono messe a suonare le campane delle sette: ero talmente presa che d’istinto mi sono messa a scattare foto al campanile, poi mi sono resa conto che inseguivo una sinestesia con un rastrello. Finite le campane era scappata anche la nuvola, in un tramonto ripido d’aprile; e io lassù con le braccia penzoloni e le mie superga arancio dovevo essere così ridicola che mi scappa una fossetta.
martedì 1 aprile 2014
la sorbottiera-3
Effetti
“Colleziono effetti” mi sento
dire in una pausa di parlato tra i silenzi a vanvera di una telefonata.
Colleziono effetti, lo sentii dire dal ragazzo che scoprì che gli piacevano gli
uomini alla bella formosa che si era innamorata di lui “il mio non
collezionarlo per favore, non è neanche un effetto”. Anni dopo come la carta
fedeltà di un negozio che non esiste più, mi risbuca dal portafoglio questa
frase assurda. Quant’è che non do una spiegazione? Due anni, due giorni, o non
sono neanche due secondi? Sono al punto che non si ha più neanche il coraggio
di chiedermela. Spiegazione poi di che, di questa mia tipografia grigia che è
iniziata nei libri di testo che sembrava volessi prendere in giro, questa mia
tipografia grigia a cui sono stati via via appiccicati i post it più svariati:
passerà, blocco, maldamore, sembra che le cose capitino solo a lei, spalla tonda, carattere di merda, smetti- i
pragmatici che non aspettano neanche di girare l’angolo per fregarsi le mani,
esaurimento- gli incuranti degli ultimi vent’anni di dsm, coque tu- i latinisti
da terza media con la bava alla bocca, IO ti voglio aiutare- la crocerossina a
cui la borsa del ghiaccio serve per spargere in terra i ghiaccioli, enlarge
your writings, da ultimo, devo
aver letto da qualche parte qualcosa di simile. Da bambina mi dicevano “che
c’è, ti sei mangiata la lingua?” rispondo, forse neanche poi tanto in ritardo,
che sì, devo aver fatto un tentativo, ma mi è rimasta di traverso.
E invece di scappare sia pura
in quell’ultima direzione, poiché soltanto la fuga poteva mantenerlo sulla
punta dei piedi e soltanto le punte dei piedi potevano mantenerlo in questo
mondo, invece di ciò si è coricato, come talvolta d’inverno i fanciulli si
buttano nella neve per congelare. Lui e questi fanciulli sanno benissimo che è
colpa loro se si sono buttati là o in altro modo hanno ceduto, sanno che non
avrebbero dovuto farlo a nessun costo, ma non possono sapere che, dopo il
mutamento che ora avviene di loro nei campi o in città, dimenticheranno ogni
colpa precedente e ogni imposizione e si muoveranno nel nuovo elemento come
fosse il loro primo elemento. Ma dimenticare non è qui la parola giusta. La
memoria di quest’uomo ha sofferto altrettanto poco quanto la sua fantasia. Esse
però non possono spostare le montagne; l’uomo è ormai fuori dal nostro popolo
fuori dalla nostra umanità, è continuamente affamato e a lui appartiene
solamente l’istante, il sempre continuato istante di un tormento cui non segue
la scintilla di una ricreazione; egli ha sempre una cosa sola: i suoi dolori,
ma in tutto il mondo intorno nessun’altra cosa che possa farsi passare per
medicina; egli ha soltanto quel terreno che occorre ai suoi due piedi, soltanto
quel sostegno che le due mani coprono, dunque, molto meno del ginnasta al
trapezio nel teatro del varietà, sotto al quale tendono per giunta una rete di
sicurezza.
La dedica sui Diari di Kafka
mi dice di aprirli a caso, ma in questo punto mi si devono essere imbarcate le
pagine.
Non colleziono effetti.
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