“Vuoi un po’ di mangime per i polli?” è Matilde, la mia compagna di banco, che parla: non avevo una compagna di banco da un pezzo, anche a scuola cambiavo posto troppo spesso, e mi fa un certo effetto. Erano tre anni che non la vedevo, da quando abbiamo fatto un semestre di tirocinio insieme a Santa Maria Nuova, e l’altra mattina ci siamo riconosciute e salutate come se ci fossimo lasciate la sera prima. Ci sediamo accanto, ecco tutto. “Vuoi un po’ di mangime per i polli?” mi porge una busta di cereali e bacche a cui ha rimboccato i margini, “sì, volentieri, ne assaggio un po’” “scusa sai, ma non volevo fare la cicciona che si porta la cioccolata!” ride di cuore Matilde e mi è cara: è bella, si disegna il volto come quello di una gatta, ma non ne avrebbe nessun bisogno per sembrarlo. Tiro fuori i miei fogli bianchi per gli appunti e mi accorgo che me ne restano due soli, per questa volta scriverò stretto.
Anche oggi devo aver scambiato la mia sinusite per malinconia, il catarro fermo tra zigomi e naso per atra bile, e per lo sfarzo sto facendo di tutto per trasformare nelle prossime due ore di lezione l’herpes che ho sul labbro in una mongolfiera. A casa sono stata un minuto buono davanti alle mie chiavi appese senza vederle, perché mi ostinavo a cercare con gli occhi un portachiavi che ho perso da almeno sei anni; quando l’ho realizzato mi è venuta incontro l’idea di Philip Dick che fa iniziare in modo simile time out of joint: non che sperassi negli alieni, ma nel periodo in cui leggevo Philip Dick sferruzzavo come una forsennata e facevo assomigliare tutti i miei prossimi, fin troppo compiacenti, a Massimo Giannini in Mimì metallurgico ferito nell’onore, e con questo posso andare.
Quando saluto Matilde alla fine della lezione però devo avere un’aria che non vorrei, perché le vedo le fossette del suo bel sorriso spianarsi, o forse è solo una mia impressione, oggi proprio non sono sicura neanche se ci sono io: del resto cosa ci si può aspettare da una nata un giorno che non c’è nemmeno tutti gli anni sul calendario?
Ieri sono salita a Bellosguardo, dietro casa, e tentavo di fotografare una nuvola quando si sono messe a suonare le campane delle sette: ero talmente presa che d’istinto mi sono messa a scattare foto al campanile, poi mi sono resa conto che inseguivo una sinestesia con un rastrello. Finite le campane era scappata anche la nuvola, in un tramonto ripido d’aprile; e io lassù con le braccia penzoloni e le mie superga arancio dovevo essere così ridicola che mi scappa una fossetta.
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