lunedì 31 marzo 2014

Herman Asa





Herman Asa


Chi era costui? Ma partiamo dall’inizio. Siamo durante l’estate della  terza media, è quell’ora infame del dopo pranzo, saranno le tre, insieme troppo tardi e troppo presto per fare qualsiasi cosa. Col mio amico d’infanzia siamo seduti a un tavolino di plastica, fuori dalla casa dei suoi al mare, e giochiamo a abalone. Stavolta i bianchi sono toccati a me, come sempre controvoglia: si sa che i bianchi non hanno segreti, sono lenti e creduloni e vengono mangiati dai neri nel giro di una mezz’ora. “Ma a te ti pare possibile che dalla prima siano già passati tre anni?” Un bombo stordito incespica nella datura lì accanto. “sì, certo: è così, perché non dovrebbero essere passati?” “mah non saprei, è che a me non pare, ecco tutto”. Alberto mi fa il segno della triglia: bocca spalancata occhio stralunato al cielo e palmi delle mani verso l’alto: convenzionalmente segnale di guerra cui segue inseguimento, lotta all’ultimo sangue e risata, o alternativamente boccacce e rancore eterno di un pomeriggio muto in cui ognuno legge sotto la propria frasca. Ma oggi siamo istupiditi da un demone meridiano assonnato, e Alberto mi concede una spiegazione: “prova a pensare a Herman Asa, quello che cambiò scuola dopo due settimane in prima” che stia mettendo su questa storia apposta, mi ha già pappato tre biglie… “se pensi a Herman Asa e non a un giorno qualunque di scuola ti rendi conto che tre anni sono passati” potenza della mente pragmatica e di chi ne è sprovvisto: mi ricostruisco il volto del bambino col ciuffo di gel che parlava a stento italiano, e tre anni si materializzano improvvisamente. Di quanti saremo stati noi poi gli Herman Asa, quelli che sono venuti una volta sola al calcetto, quella che alle lezioni arrivava sempre in ritardo e dava gli esami non si sa come. Più di dieci anni dopo ci troviamo una mattina per caso in biblioteca con Alberto: “che fai a pranzo?” “panino con lampredotto?”. E se fossimo diventati gli Herman Asa ciascuno di se stesso? Segno della triglia.  

giovedì 27 marzo 2014

ottovolante





Tornare in piscina dopo qualche mese è stato il meno freddo non poi così meno freddo di marzo. Sono state le ultime vasche di girarrosto serrato, ogni quattro poi ogni due bracciate, che gira anche la testa e si sputa anche il respiro. La ragazza che sotto la doccia canta come in una sala registrazioni, la trovo sempre. Il mio passo di pinguino collant e infradito. Il lunapark spento delle cascine con i sassolini che schizzano sotto le ruote della bici e non si sa dove finisce il buio e dove inizia un cat stevens inventato mezzo lady d’arbanville e mezzo sing out. I ginko stranieri che si affacciano sull’arno, qui dove non c’è neanche la spalletta. Penso banalmente che siamo proprio degli equivoci su due gambe, nel mio caso ora su due ruote, ma dovevo esserlo già su quattro, prima che mio nonno e mio padre mi svitassero le ruotine una per uno, una mattina all’albereta. Eppure è esistita anche Nadia Comaneci a Montreal nel ’76. Me n’ero mai accorta che il gregario, il ruolo che mi perseguita di quello che sta sempre una pedalata più avanti e si prende tutto il vento del mondo in pieno petto per tagliare l’aria al velocista che ha dietro, e che se è il caso gli cede anche la bici, me n’ero mai accorta che basta cambiargli una lettera e diventa l’amico più bello che abbia mai avuto? “Pensi che sia facile…” sola in un angolo della piscina e la piscina in un angolo di me “pensi che sia facile starti vicino?”. Ottovolante bassotto entrata, ottovolante bassotto uscita, recitano i cartelli. E se le cose non fossero poi così difficili come vogliono farci credere? Sul ponte due ragazze si scattano una foto “esprimi un desiderio!” ridono forte e si stringono alla vita “di venire bene in foto!”. 

patente

Harold e Maude - E' stato un piacere parlare con lei. - YouTube

lunedì 24 marzo 2014

foglie






Stanotte ho sognato che sugli alberi al posto delle foglie spuntavano bolle di sapone piene di fumo, e me che rimettevo la buccia a un mandarino. 
Poi mi è venuta in mente una volta che facevo una ricerca immagini-cauchemar- su google, mi aspettavo un castello ungherese e ho visto Jean Pierre Leaud che faceva capolino da una porta. Non mi ero mai chiesta se a Jean Pierre Leaud piacesse il jazz, o se qualche volta prendesse il caffè alle cinque di mattina, ma sono curiosa e fregata quanto basta. 
La mia amica Francesca mi dice di fumarci su la paglia del desiderio, ma non fumo: preferisco fare le bolle di sapone. 

mercoledì 19 marzo 2014

lunedì 17 marzo 2014

aerokat



Questa storia è dedicata a tutti quelli che, come me fino a un mesetto fa, non credono nell’esistenza dei farmaci inalatori per i gatti. 
Comincia la storia una sera dopo cena, mentre guardo la mia gatta, accovacciata ma all’erta sull’asse da stiro che sta seguendo col naso la traiettoria di un moscerino (sì, moscerini in febbraio, non ci facciamo mancare niente). Noto che le scapole le si alzano in modo strano e inizio a sospettare, chiedo riscontro a mia madre che è lì con me, e lei mi dice di non preoccuparmi, che sono un po’ troppo apprensiva. Le credo e mi metto in pace, tranne che in un angolino. Il giorno dopo mi basta dare un’occhiata al tremolio delle vibrisse di solito sornione della gatta, perché quell’angolino mi prenda forte per un dito e inizi a tirarlo, mi strattoni  il braccio: “ho già il cappotto addosso, dài sbrigati” saltella, e in men che non si dica sono all’ambulatorio veterinario. La veterinaria mi dice che deve vedere la gatta, per farle le lastre del torace e le analisi del sangue: potrebbe essere un problema cardiaco. Torno a casa di corsa e dopo una colluttazione da cui usciamo entrambe malconce riesco a infilare la gatta nel trasportino. Per strada mi trascino sette chili-così apprenderò poco dopo sulla bilancia- di contrarietà in valigia e trafelate arriviamo alla porta dell’ambulatorio. Appena aperta la scatola scopriamo che la gatta sta facendo una crisi respiratoria, non riesce a respirare se non a bocca aperta. Le lastre ci tranquillizzano immediatamente: l’ombra cardiaca -come i radiologi chiamano quest’impressione di cuore a due dimensioni- è nella norma. Ci si orienta su un problema respiratorio, asma probabilmente e subito Zoe -"siamo quasi coetanee, chiamami per nome"- procede con due iniezioni: una di antibiotico che fa lei e una di steroidi che fa fare a me. Per scrupolo però (sente un soffio col fonendoscopio) mi indirizza a una clinica da un suo collega e amico per fare l’ecocardiogramma. Mentre osserva le onde doppler, l’ecografista mi chiede della terapia per l’asma, e gli spiego che la sua collega mi ha suggerito due mesi di steroidi sottocute. “Non vi è venuto in mente di pensare agli inalatori?” sgrano gli occhi e do il meglio della ragazzina presuntuosa che c’è in me, scandisco: “inalatori per un gatto?” mi balenano delle nozioni sul fatto che negli esseri umani dopo lettura del libretto d’istruzioni e spiegazioni vis-à-vis, dal 60 al 90 percento della dose va sprecato nel faringe  “allora gonfiala di steroidi, se ti fa piacere!” mi sono intignata su un’inezia e mi è sfuggita la portata dell’assioma: inalatori uguale uso topico uguale dose minore uguale minori effetti collaterali. Pigolo “oh, già: certo le andrebbero meno steroidi in circolo” “…” “ma c’è qualche gatto che li fa davvero questi inalatori?” “qualche milione” senza girarsi. Sorrido, capisco che abbiamo trovato una buona soluzione per Smilla, la mia gatta. 
Da allora quando in farmacia chiedo fluticasone e ventolin senza ricetta perché è per il gatto mi guardano storto: li prendo in giro forse o ho smarrito il senno? Invece vi dico, siate buoni con chi scopre l’aerokat! 

domenica 9 marzo 2014

passo

Antonio Machado. 


Stamani ho camminato. Non molto: ho lasciato la bicicletta alla Porta San Niccolò per andare a San Miniato, Erta Canina Via delle Porte Sante. Solo, ci ho un po’ pensato. Che cos’è un passo? Che cosa un passo che avanza? E’ quello che ti resta nel piatto alla fine della cena, che non ce la fai a mandare giù: è il boccone che decidi di lasciare o l’imbocco che decidi di prendere? Dove sta il segreto: tarso metatarso punta? E se la foto più bella fosse quella che ti sta dietro le spalle? Bastano centottanta gradi, li conosco bene -punta metatarso tarso-, mezzo giro di giostra. Per questo si passa dall’amare le possibilità inespresse all’amare espresse impossibilità? Per questo non faccio in tempo a dire calcagno e mi si para davanti come una lama uno specchio? E basterebbe girarlo, ma anche i giri finiscono a turni alterni per essere sempre uno di troppo, per forza sempre dispari, e lo specchio sempre e solo specchio. Insegnami il segreto, caminante.
Che cos’è la distanza? Alla festa dell’artigianato di qualche anno fa, Mina dalla radio si struggeva che la città era troppo grande, e intanto il settore Pakistan somigliava sempre di più alla fiera dell’uva all’Impruneta. E io e te intorno al banco delle spezie ci guardavamo tra i mucchi colorati, e già da un po’ non ci stavamo più cercando. Insegnami il segreto, caminante.
(…)
Caminante son tus huellas
El camino y nada mas;
caminante, no hay camino
se hace camino al andar.
(…)

la sorbottiera-2

 

Giocare. 

Penso che ieri dallo psicologo l’unica scena interessante si sia svolta fuori dalla porta dello studio: un ragazzo è entrato per una lezione, probabilmente ha creduto che anch’io fossi lì per quello e ha ironizzato “oddìo, un po’ bisogno di fare terapia ce l’avrei in effetti!”. Doppio scambio: io sono davvero lì per la terapia e del resto avrei creduto prima o poi di essere lì per una lezione. E l’infinita vanità del tutto. Sogghigno dentro e fuori abbozzo, appena si libera un posto nell’altra sala mi alzo, adagio, per prenderlo, con sosta al distributore dell’acqua, equivoci amici. Lo psicologo ha la fede al dito, mi viene in mente che a mio padre l’hanno rubata la fede, l’aveva lasciata sul comodino, aveva smesso di indossarla, come ha smesso di indossare molte altre fedi, fin da giovane o ha lasciato che gliele rubassero d’un tratto,  di scatto. Mi racconto mentre mi vieto l’impressione, ma vedo che si annaspa, non si coglie, come sempre si fraintende e fa parte del gioco, ma io voglio scendere e non mi si venga a dire che questo è puntare i piedi, che questa è immaturità. Avevo fatto tutti i passi, decifrato i codici, lasciate in luogo noto le chiavi delle mie porte crettate e criptate e ancora mi ostino a farlo chissà perché e quello che trovo sono bocche senz’amo boccheggianti che scambiano gli ami per gli amanti e fa tanto freddo schifo e non ne posso più. Le mie parole ripetute da altri le ho sentite troppe volte e non mi ci sono mai riconosciuta, qualcuno le ammirava e le ripeteva, ma a me pareva che gli uscissero di tasca al contrario con la carta argento sporca di cioccolata, masticate male o addomesticate per un pubblico che non mi appartiene.  Ma ho deciso di passare sopra anche a questo. Continuo a raccontare imperterrita: chissà come, stronzate quali “parere” “consiglio” ”esperto” hanno su di me un effetto straniante, sono cose delle quali non mi si attaccherà mai l’odore e proprio per questo decido di provarle, come un paio di scarpe brutte ma che forse ci si potrebbe camminare nella merda. Ma mentre racconto mi accorgo di quanto il resoconto sia noioso. Noioso in senso toscano, fastidioso per la sua stessa materia: inerte spogliata sgonfia di ogni pathos e -siccome siamo empatici e attenti a non offendere la suscettibilità presunta, già tarata cucita e impacchettata- anche di ogni patologia, sia pure consolatoria. E sì che una malattia piccola piccola un po’ da palliativo lo può fare, non una diagnosi da mettercisi giù comodi e affiggersela al petto, ma una malattia, che un po’ male lo faccia sentire, giusto per dirci che, pure, siamo vivi. E allora il mio pensiero lepre è già lontano, tutti questi elementi queste parole che in questa mattinata d’inverno pare che si stiano svendendo a peso -morto- non si potrebbero impiegare in altro modo, non è l’ora di jouer?  




mercoledì 5 marzo 2014

la sorbottiera-1


L’ Elefante. 


Oggi penso all’elefante. 
Sarà che in questi giorni ho iniziato a leggere Le radici del cielo di Roman Gary, e che dunque penso a Rodolfo. Morel, il “francese pazzo” che si aggira per Fort Lamy con la sua petizione per abolire la caccia all’elefante, a un certo punto spiega che il suo debito risale a quando un suo compagno, durante la guerra, in prigionia, dopo qualche giorno di cella -un metro per un metro e cinquanta- sente che i muri stanno per soffocarlo e allora si mette a pensare a un branco di elefanti in libertà. I tedeschi la mattina lo trovavano che scherzava in piena forma e non potevano più nulla contro di lui. Quando poi esce di cella il compagno racconta agli altri la cosa e ogni volta che in gabbia non ne potevamo più, cominciavamo a pensare a quei giganti, lanciati in corsa sfrenata (…) Naturalmente le autorità del lager cominciarono a preoccuparsi: il morale della nostra baracca era particolarmente alto e moriva meno gente. Poi uno spione ci tradì. Potete immaginare quello che avvenne. L’idea che ci fosse ancora in noi qualcosa che loro non potevano intaccare, una finzione, un mito che non potevano portarci via e che ci aiutava a resistere li mandava in bestia. Ci riservarono un trattamento speciale. Una sera Fluche arrivò strisciando alla baracca.(…) “me n’è rimasto uno solo” mormorò “l’ho nascosto bene proprio in fondo, ma non potrò più occuparmene… non ho più quello che ci vuole… prendilo insieme ai tuoi (…) si chiama Rodolfo.” "e’ un nome da fesso” risposi “non lo voglio, pensaci tu” ma mi guardò in un modo” e va bene” dissi “prenderò il tuo Rodolfo. Poi quando starai meglio te lo darò indietro.” Ma tenevo la sua mano fra le mie e seppi subito che Rodolfo sarebbe rimasto con me per sempre. Da allora me lo porto dietro dappertutto (…). Ed è questo che difendo. 
Sarà che di leggere Le radici del cielo mi è venuto in mente perché ho visto à bout de souffle. E in à bout de souffle c’è una scena in cui Jean-Pierre Melville spiega a Jean Seberg - che ancora non era sposata con Gary-  da un tavolino appollaiato sulle strade di Parigi (Godard!), che in certi casi bisognerebbe fare come gli elefanti: quando sono tristi, o il contrario, spariscono. 
Sarà che da bambina mi piaceva il mio elefantino trudy con la coda di corda. 
Sarà. Ma oggi penso soprattutto a un pomeriggio di pioggia dell’ottobre del 2011. Accompagnavo un’amica cara alla libreria del cinema in Via degli Alfani a cercare un poster per la sua nuova camera. Non trovò niente e io uscii con due cartoline dei disegni di Fellini. Su una c’era Gelsomina con in mano un fiorellino e su l’altra, sotto una sella coloratissima, un elefante. Infilai subito la seconda nel libro di farmacologia, proporzioni intonate, per andare in biblioteca, e lì la tenni le settimane e i mesi che seguirono, l’avevo sempre davanti, la spostavo sul tavolo, appoggiata su pile di fogli, poi ha guadagnato la libreria, ritta contro le costole dei libri. Quell’inverno mi cadde addosso la tristezza, come una cacca di piccione sulla tasca dello zaino, che lì per lì non me n’ero accorta e poi mi sono ritrovata le dita impeciate. Tristezza da sorriso di saluto che finisce come le mosche che sbattono ai vetri delle finestre, e non lo capiscono. Tristezza di quando bambino vuoi sentire se il disegno è asciutto, e la tempera ti si appiccica al polpastrello e per un attimo si solleva anche il foglio, e siete tutt’uno: tempera disegno polpastrello, e poi ricade, e lì per lì è felicità e impazienza, poi a ripensarci tristezza. Tristezza di non saper contare le proprie tristezze o di non avere tristezze da contare.
 E’ stata proprio la mia amica  in quei mesi, in una mail sibillina dal tono concitato da Sisifo del sassolino nella scarpa, a buttarmi addosso che stavo ignorando l’elefante nel salotto. Sarà.
 Sarà, avevo la tentazione di dirle, quando la invitai a spiegarmi dell’elefante a quattocchi, ché forse non avevo capito bene, e lei mi ribadì che l’elefante nel salotto ero io: “il fatto che tu stai male”. Sarà, ma l’unico elefante mi sembri tu, e non ti trovi in un salotto, ma in una cristalleria. Ma ho taciuto, per rispetto dell’elefante probabilmente, o forse, e lo capisco solo ora, perché il Rodolfo che anch’io come Morel mi porto dietro era stato avvistato: e Rodolfo non è un animale da salotto. 
Oggi penso che avrei fatto meglio a usare come segnalibro l’altra cartolina, quella con la Giulietta -ironia dei nomi- Masina de La strada. Racconta Liv Ullmann nel suo romanzo Cambiare che a Roma Fellini la invitò a pranzo a casa sua con Ingmar Bergman. Bergman si era seduto vicino a Giulietta Masina, e lei, vinta la timidezza, si era messa a cantare. “non posso uscire un attimo dalla stanza senza che mia moglie si renda ridicola” disse Fellini entrando. Lei si alzò in fretta, non rispose. Attraverso il vetro della veranda la vidi andare nel giardino a cogliere fiori. Tornò poco dopo e ce ne diede uno per uno. Sorrideva sempre. Ma si muoveva in punta di piedi - per non attirare l’attenzione di nessuno.
 

sabato 1 marzo 2014

rosso


favolate-7


Cenerentola

C’era una volta un calzolaio, anzi una calzolaia, di nome Cenerentola. Quando qualcuno entrava nel suo negozio e chiedeva in paio di scarpe, Cenerentola apriva un quaderno alle pagine centrali e lo appoggiava per terra per prendere le misure dei due piedi. Un giorno venne un uomo e Cenerentola si chinò col quaderno già aperto, disegnò la pianta e passò il metro su ciascun piede in due direzioni “ha le misure di uno incrociate rispetto a quelle dell’altro” disse “è comune”. Intanto notò che l’uomo aveva i piedi che profumavano di neve appena caduta, era la prima volta che le piaceva il profumo di qualcuno: di solito l’odore di ammorbidenti, di filo di scozia o di peperonata dei calzini della gente non la conquistava per niente. Lui invece osservava le pagine sotto di sé. Va detto che Cenerentola sceglieva i quaderni per lavorare sempre e solo in base alla copertina, senza mai preoccuparsi se dentro erano bianchi a righe o a quadretti. Quel giorno i fogli erano a righe di prima, e l’uomo che era miope li scambiò per carta pentagrammata, e siccome la sua ex era una musicista e per questo tutte le musiciste erano inaffidabili, decise all’istante che Cenerentola era inaffidabile. “Per quando saranno pronte?” “passi tra una settimana”. Appena lo vide sulla soglia trascorsa la settimana, Cenerentola si accorse subito che non si sarebbe trattenuto molto, allora decise di fingere di aver preparato una scarpa sola per farlo tornare ancora. Ma lui le spiegò sbrigativamente che aveva fretta: doveva partire l’indomani, andava a lavorare all’estero e l’altra scarpa se la sarebbe fatta preparare da qualcuno meno cialtrone di lei dall’altra parte del mondo dove, si sa, anche le misure dei piedi tornano diritte insieme alle lancette degli orologi. Dunque pagò con metà banconota e partì. Cenerentola decise di utilizzare la scarpa come portapenne, e anzi le venne in mente di infilarci anche un paio di ferri per fare a maglia dei cappellini da indossare nelle notti d’inverno, che se messi la mattina sotto il cuscino tengono in caldo i bei sogni fino alla notte dopo. Passarono molti lunghi e corti piedi, e un giorno che Cenerentola aveva lasciato il suo berretto fuori ad asciugare, tornò il viaggiatore e chiese se poteva farsi riprendere le misure, perché in nessuno dei tanti paesi in cui aveva vissuto erano stati in grado di preparargli una scarpa che gli calzasse come quella di Cenerentola. Lei allora tolse le penne e i ferri, che tanto all’odore di neve appena caduta aggiungono solo quello di pettirosso, e gli porse l’altra scarpa. Quando lui le chiese perché avesse finto di non averla preparata, lei gli spiegò che aveva fretta, fretta di rivederlo. 

favolate-6


Il Soldatino di Stagno. 


   C’era una volta una Ballerina di Carta. Teneva le braccia sopra la testa con i gomiti appena piegati in una corona morbida e girava su se stessa, un piede appoggiato contro il ginocchio dell’altra gamba. Il Soldatino di Stagno invece tra tutti gli altri soldatini di stagno era l’unico ad avere una gamba sola, e ogni giorno sfilava insieme ai suoi compagni. Durante la marcia passava davanti alla Ballerina che faceva le sue piroette: ma la Ballerina non poteva vedere nessuno. Roteava veloce e badava a mantenere l’equilibrio, occhi all’infinito. Sentiva gli sguardi su di sé anche se sapeva che nessuno la stava guardando: faceva parte del portamento. Quando poi smetteva di piroettare, la Ballerina rimaneva appoggiata al muro della casa delle bambole, sempre con le braccia sollevate e la gamba piegata, ma era timida e guardava in basso vergognandosi un po’ di non poter cambiare quella sua buffa posizione. Fu così che un bel giorno notò che uno dei soldatini marciava su una gamba sola e involontariamente sollevò gli occhi su quella sorte affine alla sua. Il Soldatino di Stagno tutti i giorni aspettava da lei quel gesto senza ormai sperarlo più, così lì per lì rimase un po’  sospeso: tra la lealtà che doveva a quello sguardo, come cosa reale dal di fuori, e la lealtà che doveva alla convinzione che lei non lo avrebbe mai guardato, come cosa reale dal di dentro. La Ballerina quando lo vide perplesso si vergognò della propria mancanza di tatto e si affrettò a sorridergli conciliante. Da quella volta ogni sera il Soldatino di Stagno portava alla Ballerina un comignolo Di Marzapane che staccava dalla casetta omonima, e ogni mattina il comignolo rispuntava per lui. Quando la pendola rintoccava la mezzanotte, una mazurka suonava all’unisono nella testa del Soldatino di Stagno e della Ballerina e loro volteggiavano muovendo i passi,  non come due con una gamba ciascuno, bensì come uno con due gambe che ballasse da solo. Dopo qualche tempo di questa vita ebbero voglia di essere in due: piegare le lenzuola pulite, preparare il caffè e porgere la tazzina. Ma nella casa delle bambole le lenzuola e le tazzine erano solo disegnate, allora andarono al fiume di cartapesta verso sera. Il Soldatino si mise a sedere sulla spalletta, la schiena contro il palo di un lampione e la ballerina con un saltello lo imitò, e schiena contro schiena stavano in silenzio. Fu lei che propose di dire a turno una cosa qualunque che l’altro non sapesse. Il Soldatino parlò della bambola di coccio, che una volta gli aveva guardato la gamba e poi gli aveva sorriso con compiacimento, e di come questo gli avesse dato sui nervi, soprattutto quando poi si accorse che la bambola credeva che lui avesse un occhio di riguardo per lei, “non come noi, che abbiamo alzato lo sguardo nello stesso istante”. Era il turno della Ballerina, ma lei non seppe che dire, se non che spesso le faceva male l’alluce, a stare sempre sulla punta, “ogni tre giravolte mi faccio una pulcesecca con la scarpetta: esce anche il sangue.” 

favolate-5



La Piccola Fiammiferaia. 



C’era una volta la Piccola Fiammiferaia. Per risparmiare sulla bolletta del gas quell’inverno non aveva mai acceso il riscaldamento: con le rimanenze dei fiammiferi accendeva il camino, poi si rinvoltava nelle coperte e guardava il soffitto. La coglieva così un tipo di pensiero a folate: il bruco millegambe sul sedile di dietro, le prime lampade da tavolo a fibre ottiche, la bomboniera con l’ippopotamo in casa dei nonni. Non erano neanche ricordi, erano stampelle di una memoria-lieta no ma sicura- che in quell’inverno non aggiungevano né toglievano niente al suo stare rinvoltata nel letto, non le solleticavano le orecchie e non le muovevano il sangue. Guardando sul comodino la Piccola Fiammiferaia si accorse che le erano avanzati anche un bel po’ di cerini e le venne in mente che avrebbe potuto fare i razzetti. Si alzò dunque il tempo di prendere la carta stagnola dal cassetto in cucina e si mise all’opera. Tre capocchie, avvolgere, accendino-piccolo tradimento ai fiammiferi-, e via: sul soffitto si stampavano come dei piccoli punti, scoppi nella vernice lattea: uno scoppio per la sigla bi e a bi e e ba be, uno per le scarpe con le lucine. La prima cosa che vedeva quando apriva gli occhi era dunque quella controcostellazione e per ogni buco nero si ricordava subito la cosa che voleva dimenticare. Razzetto del casomai, non casomai tu -ti ricordi o ti dimentichi- queste interruzioni di spazio, esse esistono, ma casomai loro –ti ricordino o ti dimentichino- tu esisti. Alla Piccola Fiammiferaia venne a questo punto un gran sonno e dopo aver fissato a lungo il suo casomai che le appariva come un girasole in un giorno nuvoloso, si girò sulla pancia e si addormentò. Sognò una schiera di archi con le frecce alle sue spalle, sul punto di scoccare, e le venne da starnutire. 

favolate-4


Raperonzolo.



C’era una volta Raperonzolo. Dopo l’esame di maturità era andata a vivere in mansarda e non era più scesa. Trascorreva le giornate a leggere libri solo per il gusto di fraintenderli e scriveva al contrario tutto quello che non capiva. Non si era più tagliata i capelli e si divertiva a scacciare pretesi pretendenti, pretesti e piccioni tirando dalla finestra i noccioli delle ciliegie che sua zia- l’unica che si ricordasse di lei- le mandava su con un cestino in tutte le stagioni. La sua lunga treccia le serviva per far scendere Scipio, il gatto che si accorgeva di soffrire di vertigini solo dopo essere arrivato sul tetto. Aveva una collezione di sedie a dondolo da corsa, ognuna che faceva andare i pensieri a una velocità diversa.
 Raperonzolo però soffriva d’insonnia, dunque per addormentarsi si raccontava la storia di Raperonzolo e tutte le Raperonzolo dopo di lei facevano lo stesso, finché anche l’ultima, l’unica con le doppie punte e la ricetta dello xanax in tasca, cominciava a raccontare. Allora Raperonzolo si addormentava.

favolate-3



Il Tonto Anatroccolo

C’era una volta un anatroccolo. Un pomeriggio dopo la scuola, come tutti i pomeriggi dopo la scuola, andò a giocare ai giardini con i suoi compagni di classe. Mentre faceva i giochi che fanno di solito gli anatroccoli, come andare sul girello a tutta velocità mangiando il gelato ai lamponi con la granella di lombrichi, pensò di salire sulle spalliere fino al piolo più alto e poi slanciarsi a testa in giù e agganciarsi con le zampette. Ma dopo molte volte che ripeteva questo esercizio di grande acrobazia, e che dopo ogni volta si concedeva come premio un bombolone alla crema di trifoglio, il nostro anatroccolo fece un bel tonfo e si ruppe una zampetta. Da allora la scia che lasciava nell’acqua quando nuotava non era più netta, ma tratteggiata come quelle per ritagliare che si trovano nei collages, e gli altri anatroccoli per prenderlo in giro gli andavano dietro con le forbici come per ritagliare la sua scia. Lui però era un anatroccolo orgoglioso e fingeva di non accorgersene, allora tutti nello stagno presero a chiamarlo il Tonto Anatroccolo e lui anche di questo fingeva di non accorgersi, ovviamente peggiorando le cose. Ogni sera il Tonto Anatroccolo faceva in gran segreto degli esercizi che si era inventato per abituare la zampetta sana ad andare di qua e di là così veloce da rendere la scia di nuovo intera, e tra sé e sé aveva cominciato a chiamarsi il Django Anatroccolo. Dopo molto allenamento la scia tornò perfetta e gli anatroccoli dello stagno decisero che c’era sotto qualcosa di poco pulito e continuarono a chiamarlo il Tonto Anatroccolo, ma più a bassa voce. Venne il tempo in cui il Tonto Anatroccolo dové cambiare stagno per motivi di studio. Nello stagno nuovo nessuno lo chiamò più il Tonto Anatroccolo e lui diventò un bravissimo fisioterapista e inventò un metodo per sviluppare i muscoli delle ali degli anatroccoli che così potessero non dico volare, ma almeno planare, almeno dall’altezza dell’ultimo piolo delle spalliere. Una sera confessò a sua moglie che da anatroccolo era caduto e si era rotto una zampa, e lei “non me ne ero mai accorta: non per nulla mia zia, che mi voleva un gran bene, da piccola mi chiamava la Tonta Anatroccola. Però finalmente ho trovato la spiegazione del  particolare  che in te mi ha sempre affascinato di più: il becco storto.” 

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Pollicino.

C’era una volta un bambino che non cresceva mai di nome Pollicino. Era così piccolo che i suoi amici si divertivano a fargli fare l’altalena prendendolo per le braccia, i grandi lo salutavano e dicevano “è sempre piccolo, Pollicino”, le maestre di scuola avevano convocato i suoi genitori per chiedere loro se forse il ragazzo non mangiasse, ma Pollicino mangiava, beveva, rideva e aveva i suoi segreti: esattamente come tutti i suoi amici alti, diversamente da ciascuno dei suoi amici alti.
E io non cresco.

Se giocava a biglie Pollicino vinceva sempre e poi portava il malloppo con sé. Quando correva nell’erba alta scompariva anche a se stesso e le farfalle che volano basse, con quel loro passo incerto come se portassero con le ali valigie invisibili di leggerezza e di primavera, gli si posavano sui capelli e gli parlavano chissà quali pensieri.
E io non cresco.
Ogni mattina per andare a scuola Pollicino faceva la stessa strada, e ogni volta nascondeva le sue biglie in posti segreti che conosceva solo lui per poterle ritrovare al ritorno ed essere così sicuro che la strada anche al rovescio era proprio quella medesima e non una uguale, ma smontata e ricostruita al contrario.
E io non cresco.
A volte fingeva di perdere una delle sue biglie e  finiva per crederci lui stesso e allora era disperazione vera e pianto, si strappava i capelli e le farfalle, ma poi anche senza volerlo ritrovava sempre la biglia mancante e ogni sera poteva addormentersi sapendo che le biglie c’erano tutte e che la strada era proprio quella.
Sarà per questo che non cresco?

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La Sirenetta.


C’era una volta la Sirenetta. Se camminava non poteva cantare, se cantava non poteva ascoltare, se s’innamorava non poteva abbracciare, se abbracciava non si poteva innamorare.
Ora la Sirenetta ha appena finito di nuotare una vasca dopo l’altra e si è seduta sul bordo issandosi sugli avambracci e ha i capelli bagnati. Immaginatevela di spalle per favore, non gradirebbe in questo momento di essere guardata in faccia. Si osserva le ginocchia e pensa  “questi qua sotto non sono né pinne né piedi”, come le persone che nuotano e cantano o camminano e ascoltano amano e abbracciano non sono altro che persone. E lei è sul bordo, non canta e non ascolta, ma vorrebbe innamorarsi, anzi crede di essere già innamorata, si volta appena e vede il trampolino: del trampolino sì, potrebbe innamorarsi, in fondo quando è nell’acqua desidera sempre di fare la trapezista. Se quando ho i piedi non posso cantare che perlomeno cantino i miei piedi sulla fune, che cantino le persone il loro grido; io intanto sarò caduta e già non potrò più ascoltare.