Herman Asa
Chi
era costui? Ma partiamo dall’inizio. Siamo durante l’estate della terza media, è quell’ora infame del
dopo pranzo, saranno le tre, insieme troppo tardi e troppo presto per fare
qualsiasi cosa. Col mio amico d’infanzia siamo seduti a un tavolino di
plastica, fuori dalla casa dei suoi al mare, e giochiamo a abalone. Stavolta i
bianchi sono toccati a me, come sempre controvoglia: si sa che i bianchi non
hanno segreti, sono lenti e creduloni e vengono mangiati dai neri nel giro di
una mezz’ora. “Ma a te ti pare possibile che dalla prima siano già passati tre
anni?” Un bombo stordito incespica nella datura lì accanto. “sì, certo: è così,
perché non dovrebbero essere passati?” “mah non saprei, è che a me non pare,
ecco tutto”. Alberto mi fa il segno della triglia: bocca spalancata occhio
stralunato al cielo e palmi delle mani verso l’alto: convenzionalmente segnale
di guerra cui segue inseguimento, lotta all’ultimo sangue e risata, o
alternativamente boccacce e rancore eterno di un pomeriggio muto in cui ognuno legge sotto la propria frasca. Ma oggi siamo istupiditi da un demone
meridiano assonnato, e Alberto mi concede una spiegazione: “prova a pensare a
Herman Asa, quello che cambiò scuola dopo due settimane in prima” che stia
mettendo su questa storia apposta, mi ha già pappato tre biglie… “se pensi a
Herman Asa e non a un giorno qualunque di scuola ti rendi conto che tre anni
sono passati” potenza della mente pragmatica e di chi ne è sprovvisto: mi
ricostruisco il volto del bambino col ciuffo di gel che parlava a stento
italiano, e tre anni si materializzano improvvisamente. Di quanti saremo stati
noi poi gli Herman Asa, quelli che sono venuti una volta sola al calcetto,
quella che alle lezioni arrivava sempre in ritardo e dava
gli esami non si sa come. Più di dieci anni dopo ci troviamo una mattina per
caso in biblioteca con Alberto: “che fai a pranzo?” “panino con lampredotto?”.
E se fossimo diventati gli Herman Asa ciascuno di se stesso? Segno della
triglia.
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