L’ Elefante.
Oggi penso all’elefante.
Sarà che in questi giorni ho iniziato a leggere Le radici del cielo di Roman Gary, e che dunque penso a Rodolfo. Morel, il “francese pazzo” che si aggira per Fort Lamy con la sua petizione per abolire la caccia all’elefante, a un certo punto spiega che il suo debito risale a quando un suo compagno, durante la guerra, in prigionia, dopo qualche giorno di cella -un metro per un metro e cinquanta- sente che i muri stanno per soffocarlo e allora si mette a pensare a un branco di elefanti in libertà. I tedeschi la mattina lo trovavano che scherzava in piena forma e non potevano più nulla contro di lui. Quando poi esce di cella il compagno racconta agli altri la cosa e ogni volta che in gabbia non ne potevamo più, cominciavamo a pensare a quei giganti, lanciati in corsa sfrenata (…) Naturalmente le autorità del lager cominciarono a preoccuparsi: il morale della nostra baracca era particolarmente alto e moriva meno gente. Poi uno spione ci tradì. Potete immaginare quello che avvenne. L’idea che ci fosse ancora in noi qualcosa che loro non potevano intaccare, una finzione, un mito che non potevano portarci via e che ci aiutava a resistere li mandava in bestia. Ci riservarono un trattamento speciale. Una sera Fluche arrivò strisciando alla baracca.(…) “me n’è rimasto uno solo” mormorò “l’ho nascosto bene proprio in fondo, ma non potrò più occuparmene… non ho più quello che ci vuole… prendilo insieme ai tuoi (…) si chiama Rodolfo.” "e’ un nome da fesso” risposi “non lo voglio, pensaci tu” ma mi guardò in un modo” e va bene” dissi “prenderò il tuo Rodolfo. Poi quando starai meglio te lo darò indietro.” Ma tenevo la sua mano fra le mie e seppi subito che Rodolfo sarebbe rimasto con me per sempre. Da allora me lo porto dietro dappertutto (…). Ed è questo che difendo.
Sarà che di leggere Le radici del cielo mi è venuto in mente perché ho visto à bout de souffle. E in à bout de souffle c’è una scena in cui Jean-Pierre Melville spiega a Jean Seberg - che ancora non era sposata con Gary- da un tavolino appollaiato sulle strade di Parigi (Godard!), che in certi casi bisognerebbe fare come gli elefanti: quando sono tristi, o il contrario, spariscono.
Sarà che da bambina mi piaceva il mio elefantino trudy con la coda di corda.
Sarà. Ma oggi penso soprattutto a un pomeriggio di pioggia dell’ottobre del 2011. Accompagnavo un’amica cara alla libreria del cinema in Via degli Alfani a cercare un poster per la sua nuova camera. Non trovò niente e io uscii con due cartoline dei disegni di Fellini. Su una c’era Gelsomina con in mano un fiorellino e su l’altra, sotto una sella coloratissima, un elefante. Infilai subito la seconda nel libro di farmacologia, proporzioni intonate, per andare in biblioteca, e lì la tenni le settimane e i mesi che seguirono, l’avevo sempre davanti, la spostavo sul tavolo, appoggiata su pile di fogli, poi ha guadagnato la libreria, ritta contro le costole dei libri. Quell’inverno mi cadde addosso la tristezza, come una cacca di piccione sulla tasca dello zaino, che lì per lì non me n’ero accorta e poi mi sono ritrovata le dita impeciate. Tristezza da sorriso di saluto che finisce come le mosche che sbattono ai vetri delle finestre, e non lo capiscono. Tristezza di quando bambino vuoi sentire se il disegno è asciutto, e la tempera ti si appiccica al polpastrello e per un attimo si solleva anche il foglio, e siete tutt’uno: tempera disegno polpastrello, e poi ricade, e lì per lì è felicità e impazienza, poi a ripensarci tristezza. Tristezza di non saper contare le proprie tristezze o di non avere tristezze da contare.
E’ stata proprio la mia amica in quei mesi, in una mail sibillina dal tono concitato da Sisifo del sassolino nella scarpa, a buttarmi addosso che stavo ignorando l’elefante nel salotto. Sarà.
Sarà, avevo la tentazione di dirle, quando la invitai a spiegarmi dell’elefante a quattocchi, ché forse non avevo capito bene, e lei mi ribadì che l’elefante nel salotto ero io: “il fatto che tu stai male”. Sarà, ma l’unico elefante mi sembri tu, e non ti trovi in un salotto, ma in una cristalleria. Ma ho taciuto, per rispetto dell’elefante probabilmente, o forse, e lo capisco solo ora, perché il Rodolfo che anch’io come Morel mi porto dietro era stato avvistato: e Rodolfo non è un animale da salotto.
E’ stata proprio la mia amica in quei mesi, in una mail sibillina dal tono concitato da Sisifo del sassolino nella scarpa, a buttarmi addosso che stavo ignorando l’elefante nel salotto. Sarà.
Sarà, avevo la tentazione di dirle, quando la invitai a spiegarmi dell’elefante a quattocchi, ché forse non avevo capito bene, e lei mi ribadì che l’elefante nel salotto ero io: “il fatto che tu stai male”. Sarà, ma l’unico elefante mi sembri tu, e non ti trovi in un salotto, ma in una cristalleria. Ma ho taciuto, per rispetto dell’elefante probabilmente, o forse, e lo capisco solo ora, perché il Rodolfo che anch’io come Morel mi porto dietro era stato avvistato: e Rodolfo non è un animale da salotto.
Oggi penso che avrei fatto meglio a usare come segnalibro l’altra cartolina, quella con la Giulietta -ironia dei nomi- Masina de La strada. Racconta Liv Ullmann nel suo romanzo Cambiare che a Roma Fellini la invitò a pranzo a casa sua con Ingmar Bergman. Bergman si era seduto vicino a Giulietta Masina, e lei, vinta la timidezza, si era messa a cantare. “non posso uscire un attimo dalla stanza senza che mia moglie si renda ridicola” disse Fellini entrando. Lei si alzò in fretta, non rispose. Attraverso il vetro della veranda la vidi andare nel giardino a cogliere fiori. Tornò poco dopo e ce ne diede uno per uno. Sorrideva sempre. Ma si muoveva in punta di piedi - per non attirare l’attenzione di nessuno.

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