domenica 9 marzo 2014

la sorbottiera-2

 

Giocare. 

Penso che ieri dallo psicologo l’unica scena interessante si sia svolta fuori dalla porta dello studio: un ragazzo è entrato per una lezione, probabilmente ha creduto che anch’io fossi lì per quello e ha ironizzato “oddìo, un po’ bisogno di fare terapia ce l’avrei in effetti!”. Doppio scambio: io sono davvero lì per la terapia e del resto avrei creduto prima o poi di essere lì per una lezione. E l’infinita vanità del tutto. Sogghigno dentro e fuori abbozzo, appena si libera un posto nell’altra sala mi alzo, adagio, per prenderlo, con sosta al distributore dell’acqua, equivoci amici. Lo psicologo ha la fede al dito, mi viene in mente che a mio padre l’hanno rubata la fede, l’aveva lasciata sul comodino, aveva smesso di indossarla, come ha smesso di indossare molte altre fedi, fin da giovane o ha lasciato che gliele rubassero d’un tratto,  di scatto. Mi racconto mentre mi vieto l’impressione, ma vedo che si annaspa, non si coglie, come sempre si fraintende e fa parte del gioco, ma io voglio scendere e non mi si venga a dire che questo è puntare i piedi, che questa è immaturità. Avevo fatto tutti i passi, decifrato i codici, lasciate in luogo noto le chiavi delle mie porte crettate e criptate e ancora mi ostino a farlo chissà perché e quello che trovo sono bocche senz’amo boccheggianti che scambiano gli ami per gli amanti e fa tanto freddo schifo e non ne posso più. Le mie parole ripetute da altri le ho sentite troppe volte e non mi ci sono mai riconosciuta, qualcuno le ammirava e le ripeteva, ma a me pareva che gli uscissero di tasca al contrario con la carta argento sporca di cioccolata, masticate male o addomesticate per un pubblico che non mi appartiene.  Ma ho deciso di passare sopra anche a questo. Continuo a raccontare imperterrita: chissà come, stronzate quali “parere” “consiglio” ”esperto” hanno su di me un effetto straniante, sono cose delle quali non mi si attaccherà mai l’odore e proprio per questo decido di provarle, come un paio di scarpe brutte ma che forse ci si potrebbe camminare nella merda. Ma mentre racconto mi accorgo di quanto il resoconto sia noioso. Noioso in senso toscano, fastidioso per la sua stessa materia: inerte spogliata sgonfia di ogni pathos e -siccome siamo empatici e attenti a non offendere la suscettibilità presunta, già tarata cucita e impacchettata- anche di ogni patologia, sia pure consolatoria. E sì che una malattia piccola piccola un po’ da palliativo lo può fare, non una diagnosi da mettercisi giù comodi e affiggersela al petto, ma una malattia, che un po’ male lo faccia sentire, giusto per dirci che, pure, siamo vivi. E allora il mio pensiero lepre è già lontano, tutti questi elementi queste parole che in questa mattinata d’inverno pare che si stiano svendendo a peso -morto- non si potrebbero impiegare in altro modo, non è l’ora di jouer?  




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