La Piccola Fiammiferaia.
C’era una volta la Piccola Fiammiferaia. Per risparmiare sulla bolletta del gas quell’inverno non aveva mai acceso il riscaldamento: con le rimanenze dei fiammiferi accendeva il camino, poi si rinvoltava nelle coperte e guardava il soffitto. La coglieva così un tipo di pensiero a folate: il bruco millegambe sul sedile di dietro, le prime lampade da tavolo a fibre ottiche, la bomboniera con l’ippopotamo in casa dei nonni. Non erano neanche ricordi, erano stampelle di una memoria-lieta no ma sicura- che in quell’inverno non aggiungevano né toglievano niente al suo stare rinvoltata nel letto, non le solleticavano le orecchie e non le muovevano il sangue. Guardando sul comodino la Piccola Fiammiferaia si accorse che le erano avanzati anche un bel po’ di cerini e le venne in mente che avrebbe potuto fare i razzetti. Si alzò dunque il tempo di prendere la carta stagnola dal cassetto in cucina e si mise all’opera. Tre capocchie, avvolgere, accendino-piccolo tradimento ai fiammiferi-, e via: sul soffitto si stampavano come dei piccoli punti, scoppi nella vernice lattea: uno scoppio per la sigla bi e a bi e e ba be, uno per le scarpe con le lucine. La prima cosa che vedeva quando apriva gli occhi era dunque quella controcostellazione e per ogni buco nero si ricordava subito la cosa che voleva dimenticare. Razzetto del casomai, non casomai tu -ti ricordi o ti dimentichi- queste interruzioni di spazio, esse esistono, ma casomai loro –ti ricordino o ti dimentichino- tu esisti. Alla Piccola Fiammiferaia venne a questo punto un gran sonno e dopo aver fissato a lungo il suo casomai che le appariva come un girasole in un giorno nuvoloso, si girò sulla pancia e si addormentò. Sognò una schiera di archi con le frecce alle sue spalle, sul punto di scoccare, e le venne da starnutire.

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