domenica 23 novembre 2014

plastica trasparente




In Piazza della Repubblica ci metto qualche secondo per riconoscere Gloria Gaynor al violino. Mi chiedo se siano ancora in commercio i fuseaux con i lacci sotto i piedi, domanda puramente platonica, come quelli che mi mettevo alle medie per andare in palestra al Poggetto. “Cecilia, non fare il budino!” la mia prima verticale.
Alla Rinascente sulle scale mobili è di rito far tintinnare i ciondoli di plastica trasparente con la mano, ma oggi me ne dimentico. Mi ricordo invece di una foto di un profilo di facebook, non mio, in cui non compaio, in piena ottemperanza alla logica. Solo, in quella foto c’ero anch’io. Mi stupisco di come abbiano fatto a scomparire anche i miei capelli sciolti che erano così vicini al braccio del ritratto. Quando comincio a inventare che forse è passato un pastello gentile, un photoshop visionario, sono all’ultimo piano e comincio a cercare la guarnizione per la caffettiera. 

sitting

 

Muro bianco. Che cos’è il muro? Che cosa se non un soffitto verticale? E che cos’è il soffitto se non l’unica porzione di cielo che  sappiamo di poter toccare? Chiudo gli occhi, un solo battito. La prima volta che mi sono seduta, bianco intollerabile: una pagina da non riempire. La pagina che non sai, e no che non la volti. La mia grafia sbavata sul retro. Scopri che esistono gli altri intorno, e solo quando non li puoi vedere; il loro respiro, accordarsi. Centottanta gradi sono la differenza di questo momento. La fotografia che ti rimaneva dietro le spalle e che non hai scattato. Scattato. Inglese to shoot. Sarà banale, ma penso: invece di scattare, di scoccare, staccare. Staccare un volto dalla tela, il proprio volto dalla tela del giorno. Pellicola sottile tra te e il cielo: da bambini lo disegniamo con una striscia di pennarello, in cima al foglio. A volte lo graffiamo se l’inchiostro è poco, pur di disegnarlo. Ma tutto il bianco che rimane è quello che ti trovi davanti ora, seduto. Si siede anche il muro, ti siede di fronte. È bravo a non dare risposte, a non incalzarti con appigli e certezze. Ti lascia, semplicemente. Ti lascia, ma è sempre lì davanti. Lasciar cadere: sei già per terra. La forza di gravità non spinge, la colonna sono le vertebre una sull’altra. E la vertebra che di solito viene indicata come la prima, appena sotto il cranio, e che chiamano Atlante, a me ora pare l’ultima. Atlante come il titano condannato da Zeus a portare sulle sue spalle il peso dell’intera volta celeste, ironia degli anatomici. Mi pare l’ultima, dicevo, perché è l’unica che in questo momento deve credere: credere al filo del burattinaio che la tenga su. Hanno un’anima le marionette? Probabile di sì. Sanno le marionette in ogni loro nodo e giuntura, sanno che basta un soffio, e in questo sono sorelle delle candele. Noi no. Pensiamo di poterci curvare e decidere, inventiamo ombrelli per la pioggia e per il vento. Non ora, non qui. C’è il muro ora, e solo un filo da non disegnare.  


mercoledì 19 novembre 2014

oggi


 


Oggi volevo che il cappuccino fosse un bacio e che la spalla accanto alla mia fosse una montagna. Invece sono come le case nei miei sogni: fatte di finestre, scale e vertigini. “Ce l’hai l’ombrello?” “no”. Un no che schiocca come un sì. Nella mia borsavaligia onnipresente c’è qualcosa di rosso e arrotolato, ma forse è un aquilone.

martedì 11 novembre 2014

l'anello

 



Resto tutto il giorno appesa alla parola soprassalto, come sognare di volare: staccata appena da terra, ma senza tornare giù.

Ho ritrovato un anello che comprò mia madre a Santa Fiora. Lo porto da un po’ di giorni e non so se mi va largo o stretto. Ripenso a un tema in classe di quando avevo diciassette anni –fui la sola a scegliere il racconto di Hamsun- e alla professoressa di italiano che cercava di dirmi che  misura non è sempre e solo capienza, che a volte può anche essere questione di coincidere.
“Per me una retromarcia” diceva la spavaldetta nel negozio d’intimo.
La sera appoggio l’anello sul comodino e noto il 925 dell’argento: scopro di averlo indossato a rovescio. 

mercoledì 1 ottobre 2014

kuge



Imparo che cielo e vuoto in Giappone sono omografi e che hanno la stessa pronuncia.  “Non avrai mica il complesso della prima della classe? Di’ la verità, eri una primina…” “No, non ho fatto la primina” “intendo eri la prima della classe” “mh, devo esserlo stata, sì, tipo meteora”. 
“Un brindisi alla Norcini, il cento più meritato della scuola!” sarcasmo da capotavola, volo del centrotavola. 
Chissà perché mi viene in mente un’altra tavolata, ho undici anni e  il gruppetto dei fratelli maggiori ridacchia “Ora basta voi, è tutta la sera che vi tengo d’occhio, mi avete rotto. Ora ci si alza in piedi uno per uno e si dice ad alta voce fica” arriva il mio turno e mi alzo “Ceci te non importa”.
Salto temporale di quattordici anni, Lucca prima del concerto di Nick Cave. “Si potrà dire tutto, ma non che a Lucca manca la fica” “La vita?” “la fica, la fica!” “ma c’è tua figlia” “appunto”. Intercetto uno sguardo premuroso camuffato da. “Non ti preoccupare, Ermete: sono cresciuta col Vernacoliere diciamo in tasca”.
Penso alla mia daruma strabica, sarà che ho  l’occhio destro  miope e il sinistro ipermetrope, o l’ascendente opposto. Dogen nel 1243 disegna: “Essi sanno che i fiori del cielo esistono perché esiste la malattia degli occhi, ma ignorano la verità secondo la quale la malattia degli occhi esiste perché esistono i fiori del cielo”. 

giovedì 18 settembre 2014

maschera



Cambio la presa scart dietro lo schermo. Vecchi super8 montati su vhs. Operazione nostalgia organizzata. Mi dico che fai, ma lo faccio. Ho febbre e sinusite, mia nonna ha un anno meno di me, se faccio bene il conto. E poi a un tratto quel gesto. Ci sono gesti che vanno ad estinguersi?
Stiro la mia maglietta e quando arrivo ai segni delle mollette sui fianchi credo che la mia maglietta mi somigli. Non così i miei pantaloni, questo settembre nessuno dei miei pantaloni mi riconosce. Pazienza.
L’albero arriva con i rami alla finestra, al semaforo si ferma il professore di matematica ora in pensione, che al ginnasio ci spiegava geometria col pallone da basket. Sfilano le signore che approfittano del rosso per pettinarsi le sopracciglia. Sfilano le colonne dei grafici statistici con i loro colori evidenziatore come gli stick tra le pagine del Fornero Abbagnano di seconda mano prima di un’interrogazione.
Che cos’è che ci fa galleggiare fuori dall’acqua? “Continua ad appannarmisi la maschera” “Ci devi sputare dentro e poi lasciarla un’oretta al sole”.
Mi passo il palmo sulla fronte, velocemente, senza neanche accorgermene. 

mercoledì 10 settembre 2014

un resto




…dalla banchina mi chiama una voce che sto dimenticando, e che è la mia. Tiro giù il finestrino: l’aria del regionale lento non è condizionata, appoggio gli avambracci e mi sporgo con la mia zazzera corta. “Che fai, parti?” “No, resto”.



sabato 19 luglio 2014

d'un colpo



D’un colpo. In coda per segreterie, mi accorgo del suono di un gong, del piattista di un’orchestra che rompe le fila e con un gesto solo crea.
Mi butto sul quadro dell’elettricità coi suoi interruttori dietro il vetro, che in questo momento preferisco alla bacheca accanto. La causa del ragazzo prima di me va per le lunghe, ascolto la storia, nel riflesso fisarmonica di schiena porta socchiusa sedia girevole. Il gioco dell’oca delle metamorfosi a tappe, la carta probabilità/imprevisti, riparti dal via, la bugia infinita del se-allora. Il piattista non si è mosso ma i piatti continuano a suonare farfalle, senza pieghe numerate, in un quando che è ora e onda da lasciarsi portare. Ho la tentazione del “subito come prima” stringendo occhi pugni e denti, ma il piattista è impassibile e beffardo. Spazio poco, luoghi molti. Tra me e la soglia della segreteria ci saranno sì e no cinque passi, sentieri avvolti su se stessi, distese d’acqua con fenicotteri rosa che hanno un becco per nutrire e per parlare, interrogarsi e sfiorare. Quanto dura un tuffo in piscina, quanto il tuffo al cuore di un’attesa, quanto l’immobilità senza fermo immagine? 

giovedì 3 luglio 2014

balla spaziale

 


Oggi mi è venuto a trovare un barattolo di tempera: giotto scritto in diagonale con la o a rombo, tappo con la ghiera incrostato di colore.
“No Ceci, tu rimani ad aiutarmi, esci un po’ dopo oggi: devo portare questi al mezzanino e dare l’acqua alla piante. Lo facciamo insieme”. Io e la mia amica Vittoria siamo sempre le ultime a fare la cartella. “Vitto, tu vai: voglio solo la Cecilia”. Abbiamo otto anni, e siamo amiche. Vittoria con le doctor marten’s scortecciate della cugina grande, Vittoria che sa disegnare le cose con proporzioni  prospettiva e un tratto solo suo, che se finisce il mondo ho messo via le caramelle e il posto lo so solo io, e ora te. Vittoria che finisce di fare cartella, ma che di uscire in giardino per la ricreazione fa solo finta. Quando scendo la trovo lì: “che voleva la maestra? sì, certo: anche i suoi si volevano separare: questa sì che  è una balla spaziale!”. Balla spaziale. Riporto fedelmente sul mio diario.
Sono in bici alla pescaia di Santa Rosa e penso che questo scenario di cupole e facciate in fila potrei tirarlo via con una zampata maldestra e poi accartocciarlo. Il foglio dopo sarebbe bianco? O già disegnato? Noterei un particolare prima inosservato, sullo sfondo o in primo piano? Questo poi non ha senso: strappare il foglio non vuol dire strapparsi gli occhi, o sì?  Ho lasciato il sacco della spazzatura in cucina, me lo sono dimenticato accanto alla sedia. Inoltre: parcheggiare la bici sotto i tigli non è stata una grande idea, mi si appiccicano le mani al manubrio e taccio del sellino.
“Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere”: meccanismi mentali, perseguire chimere impossibili, solido fondamento scientifico, provali e fidati della tua esperienza. Penso che fidati è una parola sdrucciola.
Ho pensieri a scartamento ridotto. “A un certo punto ti passa un’ombra e non ti si ripesca più”. Ripesca. Oggi è un secchio sfondato, una nassa senza lische né squame.
E finiti tutti i fogli possibili il quaderno è ancora da aprire, e il lucchetto non conclude.

martedì 24 giugno 2014

solo una mela verde



Su un foglietto ritrovo la mia grafia, “vorrei che le cose succedessero come gli alberi”. Cosa volevo dire? Non lo so. 
Oggi nella borsa di Gisella c’era una mela, l’ho vista fare capolino dalla cerniera, così, senza cartoccio, solo una mela verde. Francesco va a fare la stagione a Lignano Sabbiadoro e si porta dietro una graziella e tre lucchetti, Paola e Marco parlano di racchette da tennis, su quali scivola meglio la palla. Maria mi sorride, mi ha chiesto dove ho comprato il mio vestito di sempre e ora ne ha uno uguale, le piace questo cencio. Bochra torna in Marocco dopo quattro anni che non vede i suoi, a casa; non sa neanche che treno deve prendere per arrivare alla sua stazione, sono cambiate le ferrovie, le “infrastrutture” dice, poi mi parla della primavera e della stagione delle piogge, a ottobre. 
Come gli alberi. Con la schiena appoggiata a un muro, i discorsi intorno. I rami partono di sicuro dallo sterno e fanno il solletico. Oppure rannicchiata, come se esistessero solo le dita dei piedi.
 “Niente di tutto ciò -(…)- diciamo, piuttosto, un libro che si chiude” mi ha detto Ray Bradbury da “l’ultima notte del mondo”.  

venerdì 20 giugno 2014

coraggio e curegge


accarezzevole...


Schiuma in vasca da bagno, leggo Das Kapital mentre sono indecisa se partecipare attivamente a una campagna contro l’onicofagia, contro l’onfaloscopia o allevare marmotte. O forse ricominciare a bere il tè verde al gelsomino.
La vicina del piano di sopra, che mi ha visto bambina, ogni volta che mi incontra per le scale mi chiede se ho fatto la permanente. Io le rispondo di sì, tutte le settimane, trovo i capelli ricci molto comodi e coreografici, nonché un’ottima alternativa ai clisteri di yogurt -greco, savasandìr-. Non penso che crederebbe che mia zia mio padre e io fino a dieci anni abbiamo le teghe e poi diventiamo il negus. 
E che dire di Giona, avrà mai invocato Giano per uscire dalla balena? E la tipa mignatta: è proprio vero che fa coppia col tipo mignotto? Vi sto annoiando? Pace, Panzeri, Indovina-chi. Per iscritto mi esce proprio male anche l’auto-ironia. Oddìo, non avrò mica toccato un argomento totem? E soprattutto, mica per averlo toccato l’avrò fatto ammosciare, il to(o)tem?  
Già, quasi mi dimentico: secondo me nelle capanne di Sukkot si mangia volentieri lo zuccotto. 

mercoledì 18 giugno 2014

rubata




Granita con panna, con voluttà da ritardataria: voglio affondare in Tardi e in panna, e in panne. Bicicletta rubata, di nuovo, e sono in ritardo a Tedesco. Ti ricordi la signora con il barboncino bianco che incontravamo tutte le mattine per andare a scuola? “anche stamani in ritardo, ma non vi suona mai la sveglia?”. Quella volta che c’era la gita sul Falterona e ce ne dimenticammo. E’ buona la panna. Mi comprasti un libro che parlava di Venezia e di un gatto, e mi portasti con te al lavoro. Invece ieri eravamo in anticipo, i primi di tutti i parenti, e la barzelletta Yiddisch che non riuscivi a finire di raccontarmi. 
Stavolta aggirarmi per la rastrelliera e non trovare più la bici che ci avevo lasciato la sera prima non è stato neanche spaesamento. Mi è sembrato un fatto naturale: a pensarci bene, in quest’anno e mezzo da quando l’avevo comprata non l’avevo mai ritrovata. Mando un messaggio per avvertire, e vado a piedi, così finisco per essere in anticipo sul ritardo: panna, ribadisco. 
Airone invece, la mia bici storica del liceo, l’ultima volta che l’ho vista stava appollaiata su un marciapiede sulla riva dell’Arno, su un pedale, al parco dell’Anconella, una mattina molto presto il primo giorno di marzo. Con nebbia e sole che giocavano a incresparsi, e me che ho preso appena il tempo di un caffè, senza chiederlo. Una mattina che mi pareva che il mondo crollasse e avevo una ragione solo piccola, solo una piccola ragione e neanche un accendino. 
La bici nuova è vecchia, ed è gialla “lemon e soda”, manubrio basso quasi da corsa, un’occasione. Mi piega a un’andatura ancora più ingobbita della mia solita, e per questo l’amo già. 
Airone, che G. chiamava Diotima, ma a me non è mai riuscito. Che quando me la legarono per sbaglio con un lucchetto non mio, mi misi a pensare attentamente a cosa potevo fare: ricostruii che l’avevo slegata e lasciata paradossalmente senza catena, e scesi di nuovo a legarla. Pensavo che se l’avessi fatto sarebbe stata libera entro la sera, e così è stato. Forse lo sarebbe stata comunque, ma chi lo sa. 
Si perdono anche le biciclette che non si sono mai avute.

venerdì 13 giugno 2014

Collina

 



Asfalto schiumante e tuoni negli ultimi due dopopranzo. Caldissimi. Questa di giugno è una pioggia bizzosa, che abbassa il cielo e il mal di testa, un’afa bisbetica come l’ultima lettera di un codice fiscale.
Al baretto di Lettere l’altro giorno c’era il sole invece. Tre ore di Tedesco a trentasei gradi e comicio a pensare nella lingua di Pingu. Mi rifugio al davanzale con caffè e budino di riso. Noto un alberuccio mimetizzato a forma d’ombrello, esco a fargli una foto e nel mentre passa un suv in mezzo ai tavolini. Nessuno sembra farci caso, dev’essere un evento abituale, sposto un paio di sedie per evitare che vengano travolte e mi chiedo da dov’è uscito: “associazione mutilati e invalidi di guerra” sul cancello che si richiude. Non so se è più fiacca l’arroganza del suv, l’ironia del cancello o io che racconto.
A Collina. A Collina vent’anni fa si usciva nell’orto e si staccava un pomodoro, gli si tirava un morso e ci si faceva colare addosso. Poi ci si lavavano i denti con il dito e  le foglie di salvia, ai piedi si portavano scarpe tagliate in punta con le forbici, che così “anche se fa un numero ci sta”,  e quando il caldo era troppo non c’era che da girare la maniglia e bagnarsi da capo a piedi con la sistola, lì, accanto alla vasca da bagno con le zampe riempita di terra e di fragole.
E’ solo quando, uscita dalla piscina, mi volto guardare la luna, che finalmente mi esce l’acqua dall’orecchio.  

venerdì 6 giugno 2014

Rossini




Dopo la piscina con lentezza, mi avvio a far riparare il pedale sinistro della bicicletta: sono mesi che rimando e ora schiocca ogni pochi metri. In quest’officina vicino Piazza San Jacopino non c’ero mai venuta, non conosco questo quartiere, le strade coi nomi di compositori, le incrocio di sfriso. La crema dopo doccia norvegese che mi sono portata in piscina sa irrimediabilmente di didò. Pelle di didò e capelli di cloro, arrivo all’indirizzo che mi hanno consigliato e mentre aspetto il pedale nuovo fuori dall’officina, mi accorgo che la palazzina dall’altro lato della strada ha qualcosa che mi cattura, l’occhio ci si appoggia un po’ troppo: ma sì, sono due porte identiche quasi attaccate. E al piano di sopra un balcone unico, senza divisorio, con due portefinestre anche loro identiche. 
Chi abita qui? Due coniugi che non vogliono tenere gli spazzolini da denti nello stesso bicchiere, una piuma che cade avvolgendosi su se stessa e l’equazione di gravità, due amanti timidi che non vogliono farsi vedere mano nella mano, le parole dette e le parole ascoltate. Ma c’è un momento, ora che sono qui lo so, che escono sul balcone tutti e due, ciascuno dalla sua portafinestra, appoggiano i gomiti alla ringhiera e si infossano un po’ nelle spalle.
Non saprò che cosa stanno guardando rapiti, perché a quel punto l’officina sarà già sparita, e anch’io, col mio pedale sinistro. 

sabato 17 maggio 2014

limbo




Piazzetta del Limbo in mattinata. Si devono scendere dei gradini per trovarsi di fronte alla chiesa che si chiama dei Santi Apostoli, passo davanti alla  vetrina schiribillosa di un’enoteca e scendo. La pietra è un po’ umida e la chiesa è chiusa. Di fronte la porta girevole di un albergo lascia intravedere un lampadario già acceso e il banco della portineria deserto. Cielo afoso anche se indosso il giubbotto. Per un attimo qui fuori, vorrei io non battezzata imparare a pregare: solo per ricordarmi come si scrivono le cartoline.
Il gatto color di un’arancia mi guarda sornione. Stanotte ho ritrovato sui miei scaffali un eserciziario di chimica cirillico, viene da San Pietroburgo e da qualche anno fa. Quando me lo portarono ero contenta, ora me lo rigiro fra le mani, “chimia” in oro e ritratto di Mendeleev: quell’esame incimurrito me lo stavo portando a spasso da una facoltà a un’altra, da biotecnologie a medicina, “forza con questa chimica, si dà o non si dà”: perché dici chimica, che ne sai tu di chimica? Ora sfoglio e sorrido, sorrido con sbuffo -qual è il contrario di sospirare?-. Lo sapevi già, sorridevi già così allora. E allora  lo capisco, questo è un regalo dal futuro.

venerdì 9 maggio 2014

some disordered




Crampo in piscina. Per un paio di vasche sono una marionetta a cui hanno tagliato un filo e mi porto a traino, respirando sempre dalla stessa parte, lasciando ricadere le braccia con uno schianto. Apprezzo il ranista che divide con me la corsia, apprezzo che non mi chieda niente quando arrivo al bordo, e che solo aspetti un po’ a ripartire.
 “Passerì, ti sei ferita molto?” nella recita di prima elementare pescai dal cestino coi bigliettini il ruolo della protagonista. A vent’anni la studentessa di legge che colleziona trenta mi rinfaccia piccata, passandosi lo smalto “sai, io le recite le vedevo solo da dietro le quinte”. Oh yeah. Intanto mi informa che le hanno offerto tre proposte di tesi, mentre io affondo nell’atlante di anatomia e perdo pure l’orientamento. Ma una pallina rimbalzina anche quando sfonda un vetro resta una pallina rimbalzina.  
Il cortile di Lettere non me lo ricordavo più, ghiaia e motorini. Lo schermo da aeroporto con gli orari delle lezioni non c’era l’ultima volta che ero stata qui. Mi lascio sorprendere dalla targa di marmo antica “alunne ostetriche” all’ingresso della segreteria del centro linguistico. Dentro è un tappeto a uncinetto tunisino, se anche lo girassi non cambierebbe trama, in coda davanti a me un orientale abbronzato con la silhouette divisa a metà dall’elastico delle mutande: “Franca, se viene da te un ragazzone, un cinese enorme, dagli il volantino del Portoghese, ho tentato di spiegargli ma”. 
Davanti a un cappuccino l’altro giorno aspettavo che spiovesse e mi è venuto in mente che Sofia nel cappuccino mette lo zucchero e poi zucchera anche il bordo della tazza, torno torno. Ho voluto provare, ma lo zucchero è finito tutto nella schiuma. Non fa per me. Il Grande Claus continuerà a bere il suo cappuccino zuccherato e il Piccolo Claus se ne andrà in paese con la pelle del suo cavallo: torno da Andersen, mio grande piccolo torturatore. 
Gli Ainu in Hokkaido tirano su le loro case issandole con le funi, partono a costruirle dal tetto di paglia, senza le fondamenta: è posto di terremoti e il tetto è un cerchio spiovente e può fare da coperchio all’occorrenza. 
L’aria è fresca stasera e sa di erba falciata, anche col traffico, anche con la bistecca del ristorante di fronte, ma cosa c’è poi da dire? 

sabato 3 maggio 2014

polaroid






Guardando da un cannocchiale al contrario: io e mia madre su una panda bianca,  primi anni ’90, viale dei colli. Mamma, vere fossette, veri zigomi e vera bellezza. Sceglie sempre di cantare Celentano nel tragitto tra casa e casa dei suoi. “Azzurro” se c’è ancora luce e “a mezzanotte sai” appena si accendono i lampioni. A me piace la parte con l’oleandro e il baobab. Babaob. “mamma, cos’è un loratorio?”.  Ci chiedono cosa vogliamo diventare, quasi da subito. Mi chiedo invece, gioco facile, cosa vogliamo disertare. Puntino bianco in curva, dopo curva. De-serere, s-nodare. Lo chiedo alla mia volontà krakatuk, piccola noce recalcitrante. Ho la frangia e le trecce Sioux, come sempre, per carnevale mi sono pure travestita da indianina, è bastato aggiungere una penna dietro l’orecchio, e il vestito con le frange. Disertare tra una freccia e un’altra, di stazione in stazione. 
“Cecì, quand’è che mi mandi affanculo?” il mio amico Edoardo, compagno di studio “mai Edo e lo sai.” Mai, perché nelle puntine da disegno che mi metti intorno alle scapole riconosco le penne di gabbiano, me le appunti recitando litanie silenziose come quelle che levano gli orzaioli, e non lo fai certo per disegnarmi una santerella o una martire al neon, ma per ricordarmi che ho le gambe, che se anche il pavimento, sotto i piedi, mi scivola via, ho le gambe. 
Oggi è piovuto, e sì lo so che alla collana di perline che ho fatto ne ho infilate otto in più, ma ci sono stati 6 minuti e 50 di arcobaleno. E un arcobaleno anche in bianco e nero è un arcobaleno.    

giovedì 1 maggio 2014

heimat





Stasera ho le piume arricciate e starnutisco. Forse che stare una nottata con i capelli bagnati faccia venire il raffreddore non è solo superstizione, ma stasera mi sorregge o sorveglia la fortuna travestita da inesperienza, con la risata di una Janis Joplin senza denti e con le mani da fabbro brunite di anelli e della fatica di cesellature inutili. E poi più semplicemente non mi va di accendere il phon, fon, fohn. Prima o poi mi iscrivo davvero al corso di tedesco del centro linguistico di ateneo, un’infarinatura di merkeliano potrebbe tornare utile. Merkeliano: Cecilia, vergognati. Utile poi. Im wundershonen monat mai: quando divoravo passerottescamente la saga degli Heimat di Edgar Reitz -un paio d’anni fa- il tedesco mi pareva la parlata più musicale possibile. E ora sono giorni che riguardo la sequenza del primo Heimat in cui Maria/Marita Breuer di ritorno dal cinema con la cognata Pauline, anni ’30,  le disegna sul viso i riccioli della diva muta dell’epoca, e poi approfitta di un momento di solitudine per disegnarseli anche per sé, ma sul vetro dello specchio. Non mi stanco mai di rivedere questa manciata di secondi, anche nel rewind con la matita sullo specchio che sembra cancellare il disegno.
I baci, i baci naturalmente, le ciglia farfalle, punta del naso, i polpastrelli sulla peluria della settima vertebra cervicale, capitello ionico. Stringere in tasca le virgole e le candele.
Forse quando comincia il tempo alla rovescia non ci si può stupire a vedersi venire incontro i pensieri a testa all’ingiù. Non c’è che da perderlo come viene. 

martedì 29 aprile 2014

inesitate





Ieri il mondo era i tappeti da aspirare, i vestiti e le scatole da buttare, il pavimento da lavare e tante e troppe cose e non so quali. Quando oggi mi sono svegliata mi ronzavano tutte in testa e mi sono accorta che stavo mentalmente passandole in rassegna come per preparare la valigia, ma quale valigia: stamani l’unica valigia che mi portavo dietro somigliava alla valigetta di Herzog, e dovevo andare infatti proprio alla posta, ma per un avviso di giacenza, niente lettere. Cara professoressa B., lei non si ricorderà di me-e perché dovrebbe, mi ha visto solo una volta- ma si ricorderà delle mie scarpe che fissava con tanta insistenza: velluto scuro un po’ consumato e fiocco incerto di gros grain. Cos’è, le ha trovate patetiche? Io le adoravo, anche se poi le ho buttate via -ieri per l’appunto-. Eppure le guardi bene, sono quasi austere, e poi anche se può non sembrare in realtà sono solo un paio di chantilly. Ma senta, professoressa B., cosa pensava lei quella mattina quando mi ha mandata a fare l’anamnesi, me sola, al paziente A. T. di anni 35 che nel reparto di degenza breve ci si trovava per un caso e che di anni ne dimostrava ottanta? Si è sentita spiritosa, il dottor house con la scusa del progesterone? No, guardi, professoressa B., io non ce l’ho con lei, anzi sono sicura che la sera lei sia una gran simpaticona col suo boa di piume e le ms club che passa in rassegna di sottecchi quante donne le sono cascate ai piedi intanto che fa scrocchiare all’unisono caviglia destra e spalla sinistra mentre tira un sospiro di compiacimento. Folate di turisti, ombrelli con trina e pois a cupola. Alla prima domanda: perché lei è qui? Mi si è conficcato qualcosa tra zigomo e tempia che non è andato più via, neppure quando cercando di essere il meno possibile una cavalletta ai piedi di quel letto, ho bene o male non dico conquistato la fiducia -che non era possibile e non me lo sarei proposto-, ma ridotto al minimo il fastidio sacrosanto dell’uomo che mi stava davanti “al sert, mi hanno mandato: lo sai te cos’è? Sì?” piccola breccia che si aprì. O chissà: chissà come si aprono queste brecce. Come faceva lei professoressa B., a vedere le mie scarpe quella mattina, come faceva a crederci –nelle mie scarpe intendo-? La fame degli affamati e la sazietà dei sazi, dicono che siano gemelli, indissolubilmente fusi. Sono arrivata alla posta: “per inesitate quartiere 3 gavinana-galluzzo rivolgersi a destra.” Leggo due volte “per inesitate” che vuol dire? A me quell’inesitate così maiuscolo pare un imperativo: abbandonate ogni dubbio e varcate la soglia. Piuttosto solenne, ma mi piace. E varco inesitando. “Che cos’abbiamo qui, avviso di giacenza, oh vediamo: è un atto giudiziario. Non faccia quella faccia, sarà una multa.” “no, guardi, io non…” “ah, ma non si può mai sapere, di multe ne arrivano sempre per qualunque motivo: a me ne è arrivata una dopo dieci anni perché a Venezia ero salita su un traghetto senza biglietto. Da tre euro sono diventati ottanta.” “beh, certo per Venezia…”. Santa Lucia, acqua e binari. E palafitte. “dove devo firmare?” “qui” bella mano botticelliana. Scarto. “Gentile contribuente, questo avviso le viene inviato a seguito di liquidazione di dichiarazione di successione…” one. Il millesimo dell’appartamento della zia di mio padre. Cara zia L., no "caro" Herzog, stavolta devo tirare fuori il cellulare e scrivere almeno un messaggio. 

mercoledì 23 aprile 2014

d'aria

 



Vorrei raccontarvi delle cose piccole e senza importanza. Per esempio che oggi in sala d’attesa -di quello che volete, una delle tante, inutili e continue: mettiamo del dentista, anche se non sento di essermi tolta nessun dente- Bosch aveva dipinto non solo le opere del catalogo che sfogliavo, ma anche la sala d’attesa e gli astanti, compresa me probabilmente, ma questo non ho avuto modo di appurarlo. Per esempio che mangiare i lamponi nel latte col cucchiaio non basta per credere di essere in Svezia neanche chiudendo gli occhi, ma lamponi e latte sono buoni lo stesso. “Maestra, di cos’è fatto il cielo?” “d’aria” “ma l’aria è trasparente e il cielo azzurro” “è perché l’aria si stratifica e altre cose più complicate” me lo immaginavo, non lo sa neanche lei. Per chi mi hanno preso: “si stratifica”. 
“Riccardo buonasera, avrei bisogno di un lucchetto nuovo” “ah, va bene, che è successo?” “è andato fuori posto il meccanismo” Riccardo mi fa la faccia a punto interrogativo alzando le sopracciglia e stendendo la bocca “mi è caduta la bici alla rastrelliera qui all’angolo e se le è portate tutte dietro, ho perso la pazienza e ho sbattuto in terra anche il lucchetto” “questo l’hai capito come funziona? Fammi vedere…No! non l’avvitare, tira”. 
Ma se salto a piè pari col braccio alzato e il dito su su poi ve lo dico di cosa è fatto il cielo. 

venerdì 18 aprile 2014

tre soli





Il mio ticchettio sugli scalini di oggi, ne conto quattordici e mi dico che preferirei perdere 3 a 11 che vincere 12 a 2, e poi mi chiedo se c’è differenza; e tre soli? Tre soli non può essere: sarebbero al massimo tre con il ticchettio e gli altri undici di giravolte arancione. Ma si vive proprio sempre in difesa di un territorio? Da bambina con la mia vicina di casa ci mettevamo cavalcioni sul corrimano e scendevamo così, scivolando all’indietro.
“Ce, me la sai fare una treccia?” “no” “dài che invece sei la tipica che si saprebbe pettinare…” non imparerò mai a resistere alle lusinghe di un condizionale anche poco lusinghiero. Robert Redford spunta fuori chissà perché da com’eravamo e mi è accanto, America fluoro e voce doppiata, “tu devi essere una tifosa scalmanata” ci diamo anche un cozzino fronte a fronte e poi evaporiamo entrambi. “Va bene, dammi una spazzola”.
In difesa di un territorio, capirò mai cosa vuol dire? Poggiare la guancia su una diga che sta per esplodere come sul petto di qualcuno a cui vuoi bene, e le dita, tutte le dita del mondo nelle crepe dei muri: ma da quale parte, dentro fuori, vogliono tappare le falle o vogliono semplicemente stare nelle intercapedini? Fosco Maraini in Giappone si taglia il dito mignolo e le guardie del campo di prigionia gli danno una capretta. Un dito di meno. E questo rumore cos’è, lo sentite? il rumore di tutti gli argini del mondo che erano stati tirati su solo per crollare.

lunedì 14 aprile 2014

favolate-8




Barbablù.

C’era una volta Barbablù. Sarà bene spiegare da subito che Barbablù era una donna, era la giovane figlia di Barbablù e per un caso bizzarro dal padre aveva ereditato il nome invece del cognome, oltre ai capelli così neri che al sole avevano i riflessi blu come quelli dei cartoni animati giapponesi. Ma non spaventatevi: diventano presto presto d’argento come il rovescio delle foglie d’olivo quando tira vento quei capelli. Quella mattina il Prestigiatore della Luce si era presentato a Barbablù con le belle mani aperte piene di regali: era generoso e geniale come sempre, senza neanche saperlo; Barbablù faceva dei sogni confusi e sussurrava balbettii incomprensibili e il Prestigiatore trasformava quei fili in un tessuto finissimo e bello di parole, in volti di pellicola proiettati sulla tela e in volti di carne con gli occhi di lucciola nel buio di cometa dei sogni. Quella mattina Barbablù si versava il caffè e pensava che  così potrebbe cominciare una storia, che anzi quattro anni prima proprio davanti a una tazzina come quella le era capitato di incontrare la sua gemella, che si era presa per sbaglio il suo caffè, si era scusata e le aveva raccontato la sua storia, che da allora era diventata quella di Barbablù. Dunque Barbablù sorseggiava e pensava “a che punto della storia ti sei fermata Barbablù?” a quel caffè che ti sei sfilata di sotto da sola? a vederti si sente l’odore di spigo e di pane delle madie di campagna, cogliona. Cidrolin e il Duca d’Auge sono usciti di scena tenendosi a braccetto e tu sei qui che ti bevi il tuo caffè. Punto. Ora, Barbablù non era gelosa come suo padre, anzi in questo era tutta le sue otto madri notoriamente curiose come gazze, ma un po’ scalognate. C’era solo una cosa però che Barbablù non avrebbe voluto che si scoprisse mai di lei: la sua scatola di pastelli. Pastelli a cera, non troppo pregiati. Non la teneva però chiusa da qualche parte, né badava a nasconderla: l’importante era che chi l’apriva non notasse che mancava un colore. Mancava il bianco, il colore della mancanza.   

venerdì 11 aprile 2014

rima





Ho camminato poco, dormito poco, studiato poco, all’esame manca credo poco. Credo, perché non ho guardato. Se anche avessi guardato non avrei visto. Per andare a lezione ho fatto la stessa strada di sempre; non so perché ma la strada non mi spaventa: mi sembra che a differenza di tutto il resto -del cumulo di primavere ammassato nell’armadio, degli inverni che vanno troppo stretti, troppo in fretta e sempre con troppa poca neve- la strada sia sempre diversa, sempre pronta ad aprirsi. In rima. Dopo dieci minuti di bicicletta, verso Porta al Prato o canto o inizio a pensare in rima, è un vizio. Rima labiale, rima baciata: strano destino, piccola parola, di spalancare abissi e allo stesso tempo creare un mondo di battiti che non sa. Oggi poi c’era il sole, un sole senza nuvole, troppo reale per essere vero, che schiacciava a terra le ombre sferzanti degli alberi sui viali e andava a stanare le panchine vuote per farle più verdi. Guanti a mezze dita, vi tengo nel cassetto in mezzo al mare, in questo istante, che è una vita è un momento, una passante.
 Più tardi il pratone di Boboli, quasi vuoto sul filo di mezzogiorno. Mi sono solo sdraiata: è l’unico modo di staccare l’ombra da terra.

venerdì 4 aprile 2014

mangime




“Vuoi un po’ di mangime per i polli?” è Matilde, la mia compagna di banco, che parla: non avevo una compagna di banco da un pezzo, anche a scuola cambiavo posto troppo spesso, e mi fa un certo effetto. Erano tre anni che non la vedevo, da quando abbiamo fatto un semestre di tirocinio insieme a Santa Maria Nuova, e l’altra mattina ci siamo riconosciute e salutate come se ci fossimo lasciate la sera prima. Ci sediamo accanto, ecco tutto. “Vuoi un po’ di mangime per i polli?” mi porge una busta di cereali e bacche a cui ha rimboccato i margini, “sì, volentieri, ne assaggio un po’” “scusa sai, ma non volevo fare la cicciona che si porta la cioccolata!” ride di cuore Matilde e mi è cara: è bella, si disegna il volto come quello di una gatta, ma non ne avrebbe nessun bisogno per sembrarlo. Tiro fuori i miei fogli bianchi per gli appunti e mi accorgo che me ne restano due soli, per questa volta scriverò stretto. 
Anche oggi devo aver scambiato la mia sinusite per malinconia, il catarro fermo tra zigomi e naso per atra bile, e per lo sfarzo sto facendo di tutto per trasformare nelle prossime due ore di lezione l’herpes che ho sul labbro in una mongolfiera. A casa sono stata un minuto buono davanti alle mie chiavi appese senza vederle, perché mi ostinavo a cercare con gli occhi un portachiavi che ho perso da almeno sei anni;  quando l’ho realizzato mi è venuta incontro l’idea di Philip Dick che fa iniziare in modo simile  time out of joint: non che sperassi negli alieni, ma nel periodo in cui leggevo Philip Dick sferruzzavo come una forsennata e facevo assomigliare tutti i  miei prossimi, fin troppo compiacenti, a Massimo Giannini in Mimì metallurgico ferito nell’onore, e con questo posso andare. 
Quando saluto Matilde alla fine della lezione però devo avere un’aria che non vorrei, perché le vedo le fossette del suo bel sorriso spianarsi, o forse è solo una mia impressione, oggi proprio non sono sicura neanche se ci sono io: del resto cosa ci si può aspettare da una nata un giorno che non c’è nemmeno tutti gli anni sul calendario? 
Ieri sono salita a Bellosguardo, dietro casa, e tentavo di fotografare una nuvola quando si sono messe a suonare le campane delle sette: ero talmente presa che d’istinto mi sono messa a scattare foto al campanile, poi mi sono resa conto che inseguivo una sinestesia con un rastrello. Finite le campane era scappata anche la nuvola, in un tramonto ripido d’aprile; e io lassù con le braccia penzoloni e le mie superga arancio dovevo essere così ridicola che mi scappa una fossetta.

martedì 1 aprile 2014

la sorbottiera-3


Effetti

“Colleziono effetti” mi sento dire in una pausa di parlato tra i silenzi a vanvera di una telefonata. Colleziono effetti, lo sentii dire dal ragazzo che scoprì che gli piacevano gli uomini alla bella formosa che si era innamorata di lui “il mio non collezionarlo per favore, non è neanche un effetto”. Anni dopo come la carta fedeltà di un negozio che non esiste più, mi risbuca dal portafoglio questa frase assurda. Quant’è che non do una spiegazione? Due anni, due giorni, o non sono neanche due secondi? Sono al punto che non si ha più neanche il coraggio di chiedermela. Spiegazione poi di che, di questa mia tipografia grigia che è iniziata nei libri di testo che sembrava volessi prendere in giro, questa mia tipografia grigia a cui sono stati via via appiccicati i post it più svariati: passerà, blocco, maldamore, sembra che le cose capitino solo a lei, spalla tonda, carattere di merda, smetti- i pragmatici che non aspettano neanche di girare l’angolo per fregarsi le mani, esaurimento- gli incuranti degli ultimi vent’anni di dsm, coque tu- i latinisti da terza media con la bava alla bocca, IO ti voglio aiutare- la crocerossina a cui la borsa del ghiaccio serve per spargere in terra i ghiaccioli, enlarge your writings, da ultimo, devo aver letto da qualche parte qualcosa di simile. Da bambina mi dicevano “che c’è, ti sei mangiata la lingua?” rispondo, forse neanche poi tanto in ritardo, che sì, devo aver fatto un tentativo, ma mi è rimasta di traverso.
E invece di scappare sia pura in quell’ultima direzione, poiché soltanto la fuga poteva mantenerlo sulla punta dei piedi e soltanto le punte dei piedi potevano mantenerlo in questo mondo, invece di ciò si è coricato, come talvolta d’inverno i fanciulli si buttano nella neve per congelare. Lui e questi fanciulli sanno benissimo che è colpa loro se si sono buttati là o in altro modo hanno ceduto, sanno che non avrebbero dovuto farlo a nessun costo, ma non possono sapere che, dopo il mutamento che ora avviene di loro nei campi o in città, dimenticheranno ogni colpa precedente e ogni imposizione e si muoveranno nel nuovo elemento come fosse il loro primo elemento. Ma dimenticare non è qui la parola giusta. La memoria di quest’uomo ha sofferto altrettanto poco quanto la sua fantasia. Esse però non possono spostare le montagne; l’uomo è ormai fuori dal nostro popolo fuori dalla nostra umanità, è continuamente affamato e a lui appartiene solamente l’istante, il sempre continuato istante di un tormento cui non segue la scintilla di una ricreazione; egli ha sempre una cosa sola: i suoi dolori, ma in tutto il mondo intorno nessun’altra cosa che possa farsi passare per medicina; egli ha soltanto quel terreno che occorre ai suoi due piedi, soltanto quel sostegno che le due mani coprono, dunque, molto meno del ginnasta al trapezio nel teatro del varietà, sotto al quale tendono per giunta una rete di sicurezza.
La dedica sui Diari di Kafka mi dice di aprirli a caso, ma in questo punto mi si devono essere imbarcate le pagine.
Non colleziono effetti. 

lunedì 31 marzo 2014

Herman Asa





Herman Asa


Chi era costui? Ma partiamo dall’inizio. Siamo durante l’estate della  terza media, è quell’ora infame del dopo pranzo, saranno le tre, insieme troppo tardi e troppo presto per fare qualsiasi cosa. Col mio amico d’infanzia siamo seduti a un tavolino di plastica, fuori dalla casa dei suoi al mare, e giochiamo a abalone. Stavolta i bianchi sono toccati a me, come sempre controvoglia: si sa che i bianchi non hanno segreti, sono lenti e creduloni e vengono mangiati dai neri nel giro di una mezz’ora. “Ma a te ti pare possibile che dalla prima siano già passati tre anni?” Un bombo stordito incespica nella datura lì accanto. “sì, certo: è così, perché non dovrebbero essere passati?” “mah non saprei, è che a me non pare, ecco tutto”. Alberto mi fa il segno della triglia: bocca spalancata occhio stralunato al cielo e palmi delle mani verso l’alto: convenzionalmente segnale di guerra cui segue inseguimento, lotta all’ultimo sangue e risata, o alternativamente boccacce e rancore eterno di un pomeriggio muto in cui ognuno legge sotto la propria frasca. Ma oggi siamo istupiditi da un demone meridiano assonnato, e Alberto mi concede una spiegazione: “prova a pensare a Herman Asa, quello che cambiò scuola dopo due settimane in prima” che stia mettendo su questa storia apposta, mi ha già pappato tre biglie… “se pensi a Herman Asa e non a un giorno qualunque di scuola ti rendi conto che tre anni sono passati” potenza della mente pragmatica e di chi ne è sprovvisto: mi ricostruisco il volto del bambino col ciuffo di gel che parlava a stento italiano, e tre anni si materializzano improvvisamente. Di quanti saremo stati noi poi gli Herman Asa, quelli che sono venuti una volta sola al calcetto, quella che alle lezioni arrivava sempre in ritardo e dava gli esami non si sa come. Più di dieci anni dopo ci troviamo una mattina per caso in biblioteca con Alberto: “che fai a pranzo?” “panino con lampredotto?”. E se fossimo diventati gli Herman Asa ciascuno di se stesso? Segno della triglia.  

giovedì 27 marzo 2014

ottovolante





Tornare in piscina dopo qualche mese è stato il meno freddo non poi così meno freddo di marzo. Sono state le ultime vasche di girarrosto serrato, ogni quattro poi ogni due bracciate, che gira anche la testa e si sputa anche il respiro. La ragazza che sotto la doccia canta come in una sala registrazioni, la trovo sempre. Il mio passo di pinguino collant e infradito. Il lunapark spento delle cascine con i sassolini che schizzano sotto le ruote della bici e non si sa dove finisce il buio e dove inizia un cat stevens inventato mezzo lady d’arbanville e mezzo sing out. I ginko stranieri che si affacciano sull’arno, qui dove non c’è neanche la spalletta. Penso banalmente che siamo proprio degli equivoci su due gambe, nel mio caso ora su due ruote, ma dovevo esserlo già su quattro, prima che mio nonno e mio padre mi svitassero le ruotine una per uno, una mattina all’albereta. Eppure è esistita anche Nadia Comaneci a Montreal nel ’76. Me n’ero mai accorta che il gregario, il ruolo che mi perseguita di quello che sta sempre una pedalata più avanti e si prende tutto il vento del mondo in pieno petto per tagliare l’aria al velocista che ha dietro, e che se è il caso gli cede anche la bici, me n’ero mai accorta che basta cambiargli una lettera e diventa l’amico più bello che abbia mai avuto? “Pensi che sia facile…” sola in un angolo della piscina e la piscina in un angolo di me “pensi che sia facile starti vicino?”. Ottovolante bassotto entrata, ottovolante bassotto uscita, recitano i cartelli. E se le cose non fossero poi così difficili come vogliono farci credere? Sul ponte due ragazze si scattano una foto “esprimi un desiderio!” ridono forte e si stringono alla vita “di venire bene in foto!”. 

patente

Harold e Maude - E' stato un piacere parlare con lei. - YouTube

lunedì 24 marzo 2014

foglie






Stanotte ho sognato che sugli alberi al posto delle foglie spuntavano bolle di sapone piene di fumo, e me che rimettevo la buccia a un mandarino. 
Poi mi è venuta in mente una volta che facevo una ricerca immagini-cauchemar- su google, mi aspettavo un castello ungherese e ho visto Jean Pierre Leaud che faceva capolino da una porta. Non mi ero mai chiesta se a Jean Pierre Leaud piacesse il jazz, o se qualche volta prendesse il caffè alle cinque di mattina, ma sono curiosa e fregata quanto basta. 
La mia amica Francesca mi dice di fumarci su la paglia del desiderio, ma non fumo: preferisco fare le bolle di sapone. 

mercoledì 19 marzo 2014

lunedì 17 marzo 2014

aerokat



Questa storia è dedicata a tutti quelli che, come me fino a un mesetto fa, non credono nell’esistenza dei farmaci inalatori per i gatti. 
Comincia la storia una sera dopo cena, mentre guardo la mia gatta, accovacciata ma all’erta sull’asse da stiro che sta seguendo col naso la traiettoria di un moscerino (sì, moscerini in febbraio, non ci facciamo mancare niente). Noto che le scapole le si alzano in modo strano e inizio a sospettare, chiedo riscontro a mia madre che è lì con me, e lei mi dice di non preoccuparmi, che sono un po’ troppo apprensiva. Le credo e mi metto in pace, tranne che in un angolino. Il giorno dopo mi basta dare un’occhiata al tremolio delle vibrisse di solito sornione della gatta, perché quell’angolino mi prenda forte per un dito e inizi a tirarlo, mi strattoni  il braccio: “ho già il cappotto addosso, dài sbrigati” saltella, e in men che non si dica sono all’ambulatorio veterinario. La veterinaria mi dice che deve vedere la gatta, per farle le lastre del torace e le analisi del sangue: potrebbe essere un problema cardiaco. Torno a casa di corsa e dopo una colluttazione da cui usciamo entrambe malconce riesco a infilare la gatta nel trasportino. Per strada mi trascino sette chili-così apprenderò poco dopo sulla bilancia- di contrarietà in valigia e trafelate arriviamo alla porta dell’ambulatorio. Appena aperta la scatola scopriamo che la gatta sta facendo una crisi respiratoria, non riesce a respirare se non a bocca aperta. Le lastre ci tranquillizzano immediatamente: l’ombra cardiaca -come i radiologi chiamano quest’impressione di cuore a due dimensioni- è nella norma. Ci si orienta su un problema respiratorio, asma probabilmente e subito Zoe -"siamo quasi coetanee, chiamami per nome"- procede con due iniezioni: una di antibiotico che fa lei e una di steroidi che fa fare a me. Per scrupolo però (sente un soffio col fonendoscopio) mi indirizza a una clinica da un suo collega e amico per fare l’ecocardiogramma. Mentre osserva le onde doppler, l’ecografista mi chiede della terapia per l’asma, e gli spiego che la sua collega mi ha suggerito due mesi di steroidi sottocute. “Non vi è venuto in mente di pensare agli inalatori?” sgrano gli occhi e do il meglio della ragazzina presuntuosa che c’è in me, scandisco: “inalatori per un gatto?” mi balenano delle nozioni sul fatto che negli esseri umani dopo lettura del libretto d’istruzioni e spiegazioni vis-à-vis, dal 60 al 90 percento della dose va sprecato nel faringe  “allora gonfiala di steroidi, se ti fa piacere!” mi sono intignata su un’inezia e mi è sfuggita la portata dell’assioma: inalatori uguale uso topico uguale dose minore uguale minori effetti collaterali. Pigolo “oh, già: certo le andrebbero meno steroidi in circolo” “…” “ma c’è qualche gatto che li fa davvero questi inalatori?” “qualche milione” senza girarsi. Sorrido, capisco che abbiamo trovato una buona soluzione per Smilla, la mia gatta. 
Da allora quando in farmacia chiedo fluticasone e ventolin senza ricetta perché è per il gatto mi guardano storto: li prendo in giro forse o ho smarrito il senno? Invece vi dico, siate buoni con chi scopre l’aerokat! 

domenica 9 marzo 2014

passo

Antonio Machado. 


Stamani ho camminato. Non molto: ho lasciato la bicicletta alla Porta San Niccolò per andare a San Miniato, Erta Canina Via delle Porte Sante. Solo, ci ho un po’ pensato. Che cos’è un passo? Che cosa un passo che avanza? E’ quello che ti resta nel piatto alla fine della cena, che non ce la fai a mandare giù: è il boccone che decidi di lasciare o l’imbocco che decidi di prendere? Dove sta il segreto: tarso metatarso punta? E se la foto più bella fosse quella che ti sta dietro le spalle? Bastano centottanta gradi, li conosco bene -punta metatarso tarso-, mezzo giro di giostra. Per questo si passa dall’amare le possibilità inespresse all’amare espresse impossibilità? Per questo non faccio in tempo a dire calcagno e mi si para davanti come una lama uno specchio? E basterebbe girarlo, ma anche i giri finiscono a turni alterni per essere sempre uno di troppo, per forza sempre dispari, e lo specchio sempre e solo specchio. Insegnami il segreto, caminante.
Che cos’è la distanza? Alla festa dell’artigianato di qualche anno fa, Mina dalla radio si struggeva che la città era troppo grande, e intanto il settore Pakistan somigliava sempre di più alla fiera dell’uva all’Impruneta. E io e te intorno al banco delle spezie ci guardavamo tra i mucchi colorati, e già da un po’ non ci stavamo più cercando. Insegnami il segreto, caminante.
(…)
Caminante son tus huellas
El camino y nada mas;
caminante, no hay camino
se hace camino al andar.
(…)

la sorbottiera-2

 

Giocare. 

Penso che ieri dallo psicologo l’unica scena interessante si sia svolta fuori dalla porta dello studio: un ragazzo è entrato per una lezione, probabilmente ha creduto che anch’io fossi lì per quello e ha ironizzato “oddìo, un po’ bisogno di fare terapia ce l’avrei in effetti!”. Doppio scambio: io sono davvero lì per la terapia e del resto avrei creduto prima o poi di essere lì per una lezione. E l’infinita vanità del tutto. Sogghigno dentro e fuori abbozzo, appena si libera un posto nell’altra sala mi alzo, adagio, per prenderlo, con sosta al distributore dell’acqua, equivoci amici. Lo psicologo ha la fede al dito, mi viene in mente che a mio padre l’hanno rubata la fede, l’aveva lasciata sul comodino, aveva smesso di indossarla, come ha smesso di indossare molte altre fedi, fin da giovane o ha lasciato che gliele rubassero d’un tratto,  di scatto. Mi racconto mentre mi vieto l’impressione, ma vedo che si annaspa, non si coglie, come sempre si fraintende e fa parte del gioco, ma io voglio scendere e non mi si venga a dire che questo è puntare i piedi, che questa è immaturità. Avevo fatto tutti i passi, decifrato i codici, lasciate in luogo noto le chiavi delle mie porte crettate e criptate e ancora mi ostino a farlo chissà perché e quello che trovo sono bocche senz’amo boccheggianti che scambiano gli ami per gli amanti e fa tanto freddo schifo e non ne posso più. Le mie parole ripetute da altri le ho sentite troppe volte e non mi ci sono mai riconosciuta, qualcuno le ammirava e le ripeteva, ma a me pareva che gli uscissero di tasca al contrario con la carta argento sporca di cioccolata, masticate male o addomesticate per un pubblico che non mi appartiene.  Ma ho deciso di passare sopra anche a questo. Continuo a raccontare imperterrita: chissà come, stronzate quali “parere” “consiglio” ”esperto” hanno su di me un effetto straniante, sono cose delle quali non mi si attaccherà mai l’odore e proprio per questo decido di provarle, come un paio di scarpe brutte ma che forse ci si potrebbe camminare nella merda. Ma mentre racconto mi accorgo di quanto il resoconto sia noioso. Noioso in senso toscano, fastidioso per la sua stessa materia: inerte spogliata sgonfia di ogni pathos e -siccome siamo empatici e attenti a non offendere la suscettibilità presunta, già tarata cucita e impacchettata- anche di ogni patologia, sia pure consolatoria. E sì che una malattia piccola piccola un po’ da palliativo lo può fare, non una diagnosi da mettercisi giù comodi e affiggersela al petto, ma una malattia, che un po’ male lo faccia sentire, giusto per dirci che, pure, siamo vivi. E allora il mio pensiero lepre è già lontano, tutti questi elementi queste parole che in questa mattinata d’inverno pare che si stiano svendendo a peso -morto- non si potrebbero impiegare in altro modo, non è l’ora di jouer?